Obama pensa a un compromesso sulle tasse dopo il voto

Due anni dopo, un altro presidente. Dell’Obama progressista, accusato addirittura, in campagna elettorale, di essere socialista, non c’è più traccia. L’America torna a destra e lui è costretto ad adeguarsi agli umori del Paese se vuole sperare di essere rieletto fra due anni. La lista delle correzioni comprende, come noto, la politica estera, il terrorismo, la Difesa, le riforme interne. Ora si aggiunge un altro punto: quello delle tasse. Cruciale, anzi rivoluzionario e per molti dei suoi sostenitori traumatico; perché Barack Obama, ovvero colui che sognava di passare alla storia come l’artefice di un New Deal roosveltiano versione 2.0, si trova a ripercorrere il cammino di un altro presidente americano, l’odiatissimo George W. Bush. Anzi, ad adottare, pari pari, la sua politica fiscale. E dunque a tagliare le imposte. Praticamente a tutti.
L’annuncio non è ancora ufficiale, ma il fatto che sia stato fatto trapelare attraverso il Washington Post, testimonia la prostrazione della Casa Bianca che, a tre giorni dalle elezioni di metà mandato, pare rassegnata a perdere il controllo di uno o addirittura dei due rami del Congresso. E dunque, nella prossima legislatura, a scendere a patti con la nuova maggioranza repubblicana.
Il prossimo 31 dicembre scadono i tagli fiscali decisi da George Bush e Obama dovrà decidere nelle prossime settimane se e in quali misura prorogarli. Fino a pochi giorni fa l’orientamento era di confermarli per i contribuenti con un reddito inferiore ai 200mila dollari (o 250mila per le famiglie), ma di revocarli per coloro che guadagnano di più. Dunque: agevolare la classe media e far ricadere gli sforzi di risanamento delle finanze pubbliche sulle classi più agiate. Sforzi peraltro molto blandi, in quanto questa misura avrebbe provocato un aumento del debito pubblico pari a tre trilioni di dollari nel prossimo decennio. Ma ora Obama sta considerando di estendere le agevolazioni. Senza alcuna modifica rispetto al suo predecessore. Ed è significativo che a spingerlo in questa direzione sia innanzitutto il proprio partito; per la precisione l’ala conservatrice che soffre in modo particolare la concorrenza di una destra repubblicana data per morta due anni fa e ora rinvigorita, sebbene con profonde fratture tra l’establishment repubblicano e l’arrembante ma caotico movimento dei Tea Party.
E la sinistra liberal dov’è? C’è ancora, ma è delusa, affranta. Chi, nell’ottobre 2008, trascorreva giornate intere a dar manforte a Obama, ora segue la campagna elettorale per il rinnovo di una parte del Congresso con disinteresse e talvolta disgusto. L’umore è talmente basso da spingere molti elettori progressisti a disertare le urne. Un non-voto di protesta, che, ovviamente, finisce per favorire i repubblicani, i quali, al contrario, non vedono l’ora di prendersi la rivincita.
Senza il sostegno del suo popolo, Obama sarà costretto a scendere a patti con la destra americana. Preventivamente. La proroga ai tagli di Bush serve a mettere in imbarazzo i falchi repubblicani, i quali vorrebbero ridurre le aliquote anche per i super miliardari e che ora saranno costretti, con ogni probabilità, a rinunciare al progetto.

Tatticismi e astuzie cui gli americani dovranno abituarsi dopo il voto del 2 novembre, mentre l’economia ristagna e il debito pubblico aumenta, rendendo incerto il futuro di un’America che continua a lottare, ma che non ha più voglia di sorridere, né di illudersi.

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