Con tutta probabilità, seduto nella stanza ovale della Casa Bianca, mentre la figlia minore Sasha, pur se a sette anni compiuti, si ostina a gattonare sulla moquette, Barack Obama starà iniziando a pensare che per convincere l'America e gli americani, prima che il resto del mondo, non bastano più simili "citazioni" che ricordino la fotogenica Camelot kennediana. Né tantomeno certe buone battute come quelle che qualche sera fa ha buttato lì tra gli applausi al Late Show di David Letterman.
Sta forse pensando, Obama, che quel suo Paese un tempo grande e potentissimo, ma oggi ancora invischiato nelle panie della crisi economica e avvilito da una disoccupazione di cui non c'era da tempo memoria, si stia aspettando da lui un pizzico di comunicazione e immagine in meno e un'abbondante dose di realismo e concretezza in più.
Con il risultato che il primo a farne le spese è stato un incolpevole Dalai Lama, la cui visita in corso a Washington non comprenderà la tappa alla Casa Bianca, a tu per tu con il presidente. E sia per fare un po' di storia, sia per dare una valenza politica a questa circostanza, è doveroso ricordare che si tratta della prima volta, dal 1991, che questo accade. Perfino il vituperato Bush nel 2007 aveva steso al leader spirituale dei tibetani il tappeto rosso. Così l'incontro è stato sacrificato sull'altare della realpolitik. E spostato a data da destinarsi, ma comunque dopo la visita presidenziale in Cina, in calendario a novembre.
Che mai come oggi, per l'America, la Cina sia del resto vicina, molto vicina e soprattutto ingombrante, è cosa nota. Pechino è il maggiore finanziatore del debito pubblico americano, controlla una forte percentuale di attività produttive statunitensi, è un partner di tutto rilievo nell'interscambio commerciale, e potrà soprattutto svolgere un ruolo chiave nel dialogo diplomatico relativo alla minaccia nucleare rappresentata dalla Corea del Nord e dall'Iran.
Più che dare ascolto a un congressman repubblicano come Frank Wolf, in prima fila nella battaglia per i diritti umani, il quale si è chiesto «che cosa devono pensare ora un monaco o una suora buddhista rinchiusi nella prigione di Draphei nell'apprendere che Obama non riceverà il leader spirituale tibetano?», l'inquilino della Casa Bianca ha dimostrato di avere tenuto invece molto bene a mente quanto detto a febbraio dal segretario di Stato Hillary Clinton. La quale, alla vigilia di una delicata visita in Cina, aveva affermato come la difesa dei diritti umani non debba «interferire con la crisi economica globale, con la crisi dei cambiamenti climatici e con quella della sicurezza».
Ad avere insomma il sopravvento sulle anime belle (democratiche o repubblicane) che meritoriamente si preoccupano dei dissidenti cinesi, è stata quella politica che negli ambienti di Foggy Bottom (toponimo washingtoniano e al tempo stesso nomignolo del Dipartimento di Stato) viene definita «rassicurazione strategica» di Pechino. Alla quale si aggiunge la convinzione dello staff obamiano che questo genere di incontri si riducano a strette di mano in favore dei fotografi e nello scambio di doni simbolici. Incarico che sarà affidato alla speaker dei democratici al Congresso, Nancy Pelosi.
Del resto Obama non si può permettere passi falsi e rotture internazionali proprio là dove sono in ballo temi sensibili per l'opinione pubblica interna come quello della sicurezza.
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