Chissà quanto avrebbe pagato George W.Bush, che dopo l'11 settembre aveva fatto della lotta al terrorismo la sua missione, per potere dare al mondo l'annuncio dell'uccisione di Bin Laden. Invece, l'onore è toccato al suo successore Barack Obama, la cui promessa elettorale di eliminare lo sceicco del terrore non era mai stata presa molto sul serio e che ha sempre avuto altre priorità sul fronte internazionale. Ma, ora che l'obbiettivo è stato raggiunto, il presidente ha cercato di trarne il massimo vantaggio, nella speranza di mettere a tacere le accuse di debolezza sul tema della sicurezza che gli vengono continuamente (e spesso giustamente) rivolte. Nel suo drammatico discorso televisivo a notte inoltrata, si è premurato di sottolineare che il blitz era stato eseguito su suo ordine personale dopo ben cinque riunioni preliminari con i capi dell'intelligence, e che sotto la sua guida «l'America è ancora capace di fare quello che si propone». Nel proclamare che «giustizia è fatta», nel lasciare trasparire che l'obbiettivo dell'operazione non era di catturare Osama, ma di ucciderlo, il premio Nobel per la pace che da candidato proponeva una proiezione meno bellicosa della potenza americana ha indossato idealmente il manto del vendicatore, che forse piace più ai suoi avversari conservatori che ai suoi elettori liberal. In realtà, si tratta solo dell'ultima di una serie di svolte che, pur tra mille incertezze e non pochi errori, lo stanno riportando nell'alveo tradizionale della politica americana: l'intensificazione della guerra in Afghanistan prima di un ancora ipotetico ritiro, la rinuncia alla chiusura del carcere di Guantanamo, la presa d'atto che non si può imporre a Israele una pace che non ne garantisca la sicurezza.
Per Obama, comunque, la liquidazione di Bin Laden giunge in un momento molto opportuno. A causa del pauroso disavanzo di bilancio, della crescita stentata dell'economia e del persistere della disoccupazione, la sua popolarità è scesa ai livelli minimi dal 2008 e solo la mancanza di un candidato repubblicano di buon livello gli permette di sperare in una rielezione tra diciotto mesi. Il successo conseguito nella lotta al terrorismo farà balzare in alto, almeno per qualche settimana, il suo indice di gradimento, e forse gli consentirà di perseguire con più coerenza la sua apertura verso il mondo islamico, ma di per sé risolve poco o nulla. Al di là della sua valenza simbolica, la morte di Bin Laden non comporta certo la fine di Al Qaeda, che potrebbe anzi cercare di vendicare il suo fondatore con qualche nuovo attentato spettacolare; la stessa reazione della piazza islamica a un'operazione ai limiti della legalità e allo sfregio della immediata sepoltura in mare del cadavere è, al momento, imprevedibile; e quello che un certo numero di musulmani considera il proditorio assassinio di un loro leader potrebbe influenzare negativamente la cosiddetta primavera araba, favorendo la causa degli islamisti. Al momento, l'incognita maggiore è rappresentata dallo sviluppo dei rapporti con il Pakistan, dove nonostante l'acquiescenza del governo l'antiamericanismo è già alle stelle e la spettacolare incursione delle forze speciali statunitensi non potrà che rinfocolarlo. La gestione del "dopo Bin Laden", in altre parole, si presenta forse più complessa della sua stessa eliminazione.
Novembre 2012, comunque, è ancora lontano, e salvo rarissime eccezioni i successi in politica estera non sono mai serviti a vincere le elezioni. Nel 1992 Bush padre, reduce dal trionfo nella prima guerra del Golfo, fu sconfitto da Bill Clinton che aveva puntato tutto sull'economia. Se Obama non riuscirà a rimettere quella americana sulla retta via, tagliando il deficit, contenendo il debito e rinunciando al suo eccessivo interventismo, presentarsi come l'uomo che ha liquidato Bin Laden gli servirà a poco.
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