Gli occidentali fuggono da Gaza dopo le minacce dei palestinesi

Gli occidentali fuggono da Gaza dopo le minacce dei palestinesi

da Gaza

Il fax è lì sulla scrivania. Padre Manuel lo solleva con due dita, come un pezzo di cartaccia lorda e sudicia. «Non so neanche se chiamarle minacce, in tanti anni qui non ho mai letto niente del genere. Mi avvertono che se in Danimarca qualcuno brucerà il Corano, loro distruggeranno le nostre chiese e le nostre scuole qui Gaza. Mi sembra una tempesta in un bicchier d'acqua, ma le mie povere sorelle han paura, non si sentono più tranquille, son terrorizzate, vivon barricate in chiesa». Quella «roba», come la chiama padre Manuel Musallam, 67enne parroco di Gaza, è arrivata giovedì sera. In testa alla lettera ciclostilata diffusa via fax campeggiano le firme della Jihad islamica e di una sconosciuta Brigata Al Yasser. Insieme non smuovon d'un millimetro l'anziano parroco.
«Sono palestinese, sono nato in Cisgiordania, ho servito a Jenin e Ramallah e prima di arrivare qui nel ’95 ero amico personale di Yasser Arafat. Adesso qualcuno usa il suo nome e pretende di farmi paura. È ridicolo. A Gaza cristiani e musulmani hanno condiviso per secoli le stesse sofferenze. Oggi i cristiani son tremila e noi cattolici non più di 200, ma nelle tre scuole della "Sacra Famiglia" su 1134 studenti solo 120 credono in Gesù Cristo. I nostri ragazzi studian con i figli di Hamas e di Fatah e nessuno s'è mai lamentato. Da noi studiava anche il figlio di Mahmoud Zahar, quello ucciso dagli israeliani due anni e mezzo fa nel bombardamento della sua casa».
Letta quella «roba», ascoltate le suppliche delle cinque suore palestinesi e delle dieci sorelle straniere alloggiate nella parrocchia di Gaza City, padre Manuel non esita attimo e chiama il numero uno di Hamas. «Con quelli di Hamas non ci sono mai stati problemi. Quando lo sceicco Ahmed Yassin era vivo mi sedevo al suo fianco e lui mostrava a tutti la Bibbia che gli avevo regalato. Ieri non appena ho telefonato, Zahar si è precipitato qui». Un'ora dopo il padrino fondamentalista assicura la sua protezione a scuole e chiese della «Sacra Famiglia».
«Per prima cosa - racconta padre Manuel - m'ha offerto i suoi armati per proteggere chiese e scuole, ma io l'ho ringraziato e mi sono accontentato della sua parola». Quaggiù, nel cortile della parrocchia, le sorelle avrebbero gradito qualcosa di più visibile e concreto. Gaza in queste ventiquattro ore si è svuotata. Scomparsi gli stranieri, fuggiti i diplomatici, scappati gli operatori umanitari, ritiratisi tanti giornalisti, le suore cattoliche son rimaste sole. Quindici sorelle assediate dietro i cancelli d'acciaio del Patriarcato Latino. Mentre salutiamo, mentre c'infiliamo in quella fessura di cancellata socchiusa su una Gaza sempre più ostile, una di loro m'afferra il braccio. «Stai attento, ti prego, lì fuori adesso è pericoloso, non fidarti di nessuno».
Da giovedì sera voci e dicerie sussurrano di auto piene d'armati alla caccia d'europei e stranieri, di hotel perquisiti, di sedi straniere circondate. Di certo giovedì notte una molotov ha annerito le mura del centro culturale francese. Ma questa mattina Gaza appartiene ad Hamas. Dopo le minacce targate Jihad Islamica e Brigate Al Aqsa i trionfatori delle elezioni, i guerriglieri fondamentalisti convertiti alla politica son decisi a dire la loro sulle vignette del profeta con il turbante al tritolo. E lo fanno con lo stile del vincitore. Dissoltesi le armate scompaginate e turbolente di Jihad e Fatah, scomparsi i kalashnikov, esauritesi minacce e raffiche di piombo al cielo Hamas egemonizza la piazza, smuove le masse, le dirotta dalla preghiera di mezzogiorno al piazzale del Parlamento.
È passata manco un'ora dalla fine della preghiera del venerdì e loro son già più di cinquemila. Una marea di barbe e veli candidi sotto una foresta di drappi verdi e versetti del Corano. Un juke box d'umani. Un coro assordante diretto a bacchetta per condannare Danimarca, Francia, Norvegia e, a poco a poco, l'intera Europa. «La libertà di stampa europea serve solo a colpire l'Islam», si limita a dire Ismail Haniyeh simbolo e icona del nuovo Hamas. Il resto non cambia. Un rito consueto che al posto delle bandiere israeliane e americane incenerisce gli stendardi del vecchio continente. Oggi, però, nel cuore di Gaza City e nel campo profughi di Jabalya, neppure uno sparo. Neppure un'arma sollevata sulla folla. Hamas già assapora il potere, dispiega l'ordine nuovo, disegna la propria nuova immagine, l'adorna di regole e disciplina. Ma in mattinata due bombe erano state lanciate contro il centro culturale francese: una era esplosa nel cortile senza causare danni, l’altra aveva fatto cilecca ed è stata poco dopo disinnescata dagli artificieri.
«Toccate la nostra religione è sarà un bagno di sangue», gridano a Gaza City mille voci tra la caligine di bandiere cremate. Il messaggio in fondo è lo stesso, ma l'immagine oggi è sostanza. Quel quadrato ordinato, quel cordone umano pronto ad arginare rabbia ed agitazione fa la differenza, diventa il simbolo del nuovo potere.

Tutto il resto è lo stesso. «Chi ha disegnato quelle vignette non ha speranza, lo prenderemo e lo uccideremo» sussurra un ragazzino. Poi sorride e saluta. Con rispetto e sottovoce. Con lo stile del nuovo Hamas di oggi e domani.

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