Una storia che è una storia. Dei personaggi con lo sguardo intenso, che dicono solo le parole che devono dire. E poi tirano verso il basso il cappello a falda larga, piantano per bene gli stivali nella polvere, facendo tintinnare gli speroni, e affrontano la sfida, qualunque sia.
Insomma il coraggio della semplicità, la scelta dietrista di sfuggire alle complicazioni del moderno che vorrebbe il mondo, soprattutto letterariamente parlando, pieno di piani sovrapposti, di mappe culturali inestricabili, di snervanti introspezioni in cui perdersi.
È in questo «gran rifiuto» che potremmo trovare la chiave, il succo, del «Neowestern». Ossia di un romanzo che ci mette davanti degli eroi veri, a tutto tondo, scolpiti nella pagina senza una parola o un dialogo di troppo. Messi in ambientazioni dove modernità è epica da cavaliere solitario si toccano. E che questo modello stia avendo un discreto successo è un’evidenza. Cormac McCarthy trasformato in film dai fratelli Coen con un suo romanzo, clamorosamente western, come Non è un paese per vecchi, Annie Proulx che con il suo Gente del Wyoming ha regalato al cinema personaggi scabri e disperati come i cowboy di I segreti di Brokeback Mountain.
Ma l’onda lunga del ritorno alle praterie, e soprattutto a eroi dotati di forza mitica, di un che di granitico (pietra allo stesso tempo forte e friabile) non si ferma a questi autori, ormai di culto.
È appena arrivato in libreria il libro di Leif Enger Così giovane, bello e coraggioso (Fazi, pagg. 414, euro 19,50, trad. C. McGilvray e S. Tummolini) che pesca a piene mani dall’epica della frontiera, a partire dall’ambientazione. Tanto per intenderci: Minnesota 1915 un uomo misterioso (lo scopriremo famoso rapinatore di treni) scende in barca lungo un fiume uno scrittore, molto più modernamente in crisi di ispirazione, lo guarda passare. Si parlano: «Bella barca», dice lo scrittore, «Bel fiume», risponde il bandito. E in una battuta c’è il resto del romanzo. Un bandito capace di farsi portare dagli eventi, che ha vissuto alla vecchia maniera - sballottato dalla corrente della vita - trascina con sé in un viaggio spericolato - con tanto di salti da carrozze ferroviarie in corsa e sparatorie, dilemmi morali che mettono in discussione rispetto della legge e amicizia - uno scrittore molto più tristemente vicino alle ambasce dell’uomo qualunque. Ma la forza di Enger non è tanto nella trama, quanto nella capacità di trasformare dialoghi e descrizioni nell’equivalente cartaceo delle riprese di Sergio Leone: «Clive Hawkins era l’amico più fidato di Redstart. Si sputavano sulla mano prima di stringersela»; «per quattro volte mi sono ritrovato in mezzo a una rapina al treno, ma non ho mai perso neanche un centesimo»; «sfregò un fiammifero per accendere la sigaretta, con gli occhi verdi come lucciole e quasi allegri».
Il tutto non senza una certa ironia - a partire dal fatto che questo è un quasi western che ha per protagonista uno scrittore che non riesce ascrivere un western - che evita alla narrazione di diventare stucchevole e le consente di giocare con i cliché senza farsene schiacciare.
Dichiaratamente neowestern anche se molto più realistico, contemporaneo e tragico è anche La leggenda di Colton H. Bryant di Alexandra Fuller (Mondadori, pagg. 230, euro 18,50, trad. G. Granato). Lo sfondo, come per i racconti della Proulx, è il Wyoming, lo stato meno popoloso degli Stati Uniti, quello che già nel nome della sua microscopica capitale, Cheyenne (55mila abitanti), ricorda più da vicino la vecchia frontiera. La narrazione condensa la vita di un giovane, ipercinetico e cowboy sino al midollo, che si trova a vivere in un’epoca che, infondo, non è più la sua. Lui ama i cavalli e la libertà, ma il destino ormai si decide sui banchi di scuola. Lui è cresciuto in una famiglia “country style” ma ormai la vita scorre sui ritmi dei pozzi che pompano petrolio. Lui vorrebbe i rodei, ma ormai si tratta di lavorare alle trivelle per garantire un futuro a bambini che hanno nomi pittoreschi tipo Dakota Justus.
E Colton ragazzo cresciuto in fretta fa quello che deve fare anche se, mentre mastica tabacco, già lo sa quale sarà il finale gia scritto di questo inutile duello con la tecnologia.
«Finirà per uccidermi» dice Colton. «Chi il freddo?», gli chiede un amico. «No l’impianto di trivellazione» risponde Colton. E quando l’eroe muore, male e lentamente dopo essere stato maciullato da una caduta, un luccicone dagli occhi può scendere. Anche perché quello della Fuller non è proprio un romanzo, è la forma leggendaria, raccontata a voce, di una storia vera. Nell’ultima pagina del libro c’è la foto di Colton H. Bryant. Il ragazzo strambo che sorride è morto davvero, per una passerella senza parapetto, lui che avrebbe molto più volentieri accettato di essere incornato da un toro. E in fondo il dramma che si consuma sotto il cielo dei canyon e delle praterie è proprio questo, come scrive la Fuller: «C’è sempre chi muore per far posto alla successiva ondata di persone che cerca il modo di arricchirsi sfruttando tutta questa parvenza di infinità... e alla fine anche noi - chi racconta le storie chi le ascolta - seguiremo la sorte di indiani, bisonti, cowboy e petrolieri».
Ma se di dramma della perdita del contatto con gli animali e con la terra, di rimpianto per la semplicità si deve parlare allora non si può non citare anche un romanzo europeo appena uscito: La lunga siccità di Cynan Jones (Isbn, pagg. 94, euro 15,80). L’autore giovanissimo viene dal Galles ma la storia che racconta potrebbe essere ambientata, al di là dei dettagli (come le quote latte), in qualunque luogo dove il moderno schiaccia e distrugge il mondo delle fattorie. Un uomo, Gareth, vaga per i campi alla ricerca di una mucca che è fuggita. E attorno a lui tutto è solitudine e desolazione. Ma al di là del contesto è di nuovo la prosa spinta verso l’essenzialità e la metafora superbamente materialistica a colorare di neowestern la narrazione: «Le stelle, vibranti come la gola di un passero», «il vecchio prugnolo contorto color melanzana». Tanto che secondo molti il libro ricorda la prosa di Breece D’J Pancake che dell’America rurale è stato uno degli ultimi e più originali cantori.
Preso atto del fenomeno, dei suoi memi e dei suoi fenotipi, resta da chiedersi: ma perché questi romanzi stanno tornando ad affascinarci così tanto? La risposta potrebbe essere questa. È tanto che viviamo il dubbio e la crisi. È tanto che il libro ci regala il rovello interiore.
Fa bene vedere su carta degli eroi positivi. Non dei vincenti, tanto meno senza macchia o senza paura. Semplicemente degli umani che, per dirla come si sarebbe detto a Deadwood, che vincano o perdano scelgono di «morire con gli stivali ai piedi».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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