Cultura e Spettacoli

Oggi la scienza ha superato la fantascienza

Nella gara a immaginare il futuro gli scrittori di fantascienza hanno perso e gli scienziati hanno vinto. Né bisogna stupirsi di questo. Sarebbe stato difficile per un pugno di scrittori di genere, poco stimati dagli autori più prestigiosi e poco pagati dagli editori, riuscire a battere i migliori cervelli del mondo, coccolati, protetti, incitati e finanziati dai governi e dalle multinazionali di tutto il mondo. Sono stati questi ultimi a inventare la plastica e l’atomica, il frigorifero e il telefonino.
Nel campo della robotica, ossia dell’imitazione tecnologica dell’uomo, la vittoria è stata particolarmente evidente. Isaac Asimov e Philip K. Dick si ingegnavano a immaginare i comportamenti di esseri antropomorfi con risultati letterari di notevole rilievo, in seguito sbeffeggiati da Panshin e da Douglas Adams in caricature deliziose, mentre la scienza sviluppava l’intelligenza in luoghi separati da quelli nei quali lavorava sul fare, sui meccanismi, sulla sostituzione del lavoro umano. Niente obbligava i robot ad avere un aspetto simile a quello dell’uomo. Nella fabbrica automatizzata le macchine che costruiscono automobili non hanno sembianze umane, anche se diventano protagoniste di spot pubblicitari, e i computer che stanno sulle nostre scrivanie somigliano molto più a delle macchine per scrivere che agli androidi fuggiaschi di Blade Runner. Eppure una piccola rivincita la fantascienza se l’è presa con 2001: Odissea nello Spazio, quando il calcolatore di bordo Hal 9000 impazzisce, immaginare l’esistenza di elementi di natura psicologica in un computer assolutamente non antropomorfo fu una grande illuminazione della fantasia. Sulla stessa strada si situò il meno originale Wargames. Qualche anno prima, in Alien, era stato però di nuovo un androide a tradire i compagni e a far salire la creatura aliena sul mercantile Nostromo per ubbidire a istruzioni segrete ignote agli umani di bordo.
La cinematografia ha recuperato dalla letteratura fantascientifica parecchi degli esempi più significativi della questione robotica. Ma la scienza non rimane indietro, perché la questione dell’intelligenza non può essere scissa dal bouquet di prestazioni nel quale si inserisce, che comprende le tecniche di apprendimento, la capacità di adattarsi e di evolversi, e perciò quella di comportarsi. Non deve sfuggire che proprio le questioni relative al comportamento, ai modi e alle motivazioni dell’agire stanno alla radice dell’etica, sui cui confini, lungo una diversa frontiera del sapere, si interrogano gli etologi.
L’uomo è più intelligente di un cane e per questo sa far di conto meglio di lui, ma forse è per la stessa ragione che le sue possibilità nel campo della morale sono maggiormente articolate e più ricche dal punto di vista della profondità problematica. Né sfugge il fatto che da questa ricchezza nasce la capacità di tradire, di mentire, di essere ingrato, tutte abilità ben più sviluppate nell’uomo che nelle bestie.
Proprio lì stanno le preoccupazioni e le speranze di chi lavora e si interroga sulle possibilità collaterali, per così dire, del cervello al silicio, quelle che potrebbero affiancare la potenza nel calcolo, con le sue risposte statistiche e la scelta stocastica come ultima risorsa. Il timore sta nel fatto che forse Darwin aveva ragione, o almeno la fredda emotività dei computer potrebbe finire con l’attribuirgliela, con le conseguenze che ne deriverebbero per il suo agire. Tutti temono le scelte di una macchina che ritiene in buona fede che la sua sopravvivenza costituisca il più importante degli obiettivi da conseguire.
Le tre leggi della robotica di Asimov erano l’ottimistica risposta a questa preoccupazione. Servivano a condizionare i robot ad agire sempre a favore degli esseri umani, a costo di sacrificare l’incolumità fisica. Li piegava di fatto ad un atteggiamento costante di altruismo. Ma non si deve dimenticare che la chiave dei racconti stava il più delle volte nel fatto che sorgeva un problema di fronte al quale le tre leggi della robotica si dimostravano inadeguate.
Perché poi, dietro ancora al timore che i computer intelligenti possano liberarsi dai vincoli etici che i loro costruttori imporranno loro, sta una preoccupazione più profonda e già oggi pienamente avvertita: forse l’umanità non dispone di un codice etico condiviso e quindi proponibile, o da imporsi per via tecnologica, ai propri fratelli bionici. Per dare qualcosa a qualcun altro bisogna prima possederlo e proprio riguardo a questo la scienza non sembra in grado di cavarsela da sola. Né la morale evanescente del pensiero debole, né l’etica del permissivismo laico, né la proposta sincretista della new wave sembrano capaci di fondare modelli comportamentali adatti ai robot e se questo non è ancora un problema per il controllo dello sviluppo dell’intelligenza artificiale certo già lo è per parecchi altri riguardi.

I robot ci danno una mano sottolineando questa realtà.

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