Olindo e Rosa, una confessione con 240 errori

L’impianto accusatorio che in primo grado ha portato alla condanna di Olindo Romano e Rosa Bazzi per la strage di Erba vacilla. Altro che «indagini dettagliatissime», come ha detto in chiusura di requisitoria il sostituto pg Nunzia Gatto. Non c’è alcuna prova scientifica che collochi la coppia nell’appartamento della mattanza, né tracce biologiche dei presunti macellai nell’appartamento dove morirono tre donne e un bambino. Il Ris l’aveva già sostenuto deponendo per la difesa in primo grado, e questo enorme punto interrogativo sembrava risolto dalla macchia di sangue trovata nell’auto di Olindo, sulla cui perquisizione pende però il verbale firmato da uno degli agenti che prima di entrare nella Seat Arosa aveva calpestato il sangue raccolto nel primo sopralluogo. Il verbale che documenterebbe una possibile contaminazione involontaria diventa carta straccia quando il maresciallo dei carabinieri Gallorini dice in aula che l’agente l’aveva firmato ma non aveva partecipato alla perquisizione. E che chi ha ispezionato l’auto non ha firmato il verbale. Strano.
Ma la macchia dov’è? Nelle foto scattate durante i rilievi condotti dal solo agente Fadda (che in aula dirà tre volte «ho fatto tutto da solo») e pubblicate dal settimanale Oggi, non si vede mai. O meglio, c’è una foto del battitacco della Seat con un cerchio rosso, ma a occhio nudo dentro quel cerchio non si vede nulla. Ora è spuntato un secondo uomo, presente nel garage con il Luminol in mano. È Olindo che aiuta i carabinieri a spedirsi all’ergastolo scattando foto o aiutando a cercare il sangue delle vittime sulla sua auto? O forse, se escludiamo quest’ipotesi grottesca, di cui peraltro Fadda ha taciuto, c’è un altro? E chi è? E perché Fadda non ne ha parlato? Sembra che a nessuno importi. Sembra quasi che ciò che c’è a verbale e ciò che viene detto in aula, in un processo per strage, non conti nulla. Perché, a contare, pare sia solo lo sguardo dell’Olindo furioso colto da Gallorini a poche ore dalla strage.
Anche la famosa «pista familiare», carte alla mano, appare poco percorsa, contrariamente a quanto sostengono gli inquirenti. Il 14 dicembre Carlo Castagna dice a Gallorini che suo figlio Pietro è rientrato alle 22 con la Panda della moglie. Il 16 Pietro dice allo stesso Gallorini, che ha dormito tutto il pomeriggio. C’è un buco di otto ore tra le due versioni. Nessuno approfondisce, nessuno intercetta la Panda che non è citata nemmeno in un atto d’indagine sebbene sia oggetto di conversazione telefonica tra i componenti della famiglia in mano alla difesa. Strano. Perché contemporaneamente il superstite Mario Frigerio si è svegliato e ha riconosciuto un olivastro più alto di lui e con gli occhi scuri, mai visto prima. Viene fatto stilare un identikit. Ma è ancora una volta il luogotenente Gallorini a prendere l’iniziativa. Pur avendo annotato a verbale che nelle cose sequestrate dai Romano la sera della strage non c’era sangue, va da Frigerio e gli chiede se «la figura nera che aveva di fronte» poteva essere Olindo. E Frigerio, traumatizzato in ospedale, dopo un’ora che glielo chiede dice sì, forse è lui: più basso, occhi più chiari, qualche capello in più e soprattutto ancora olivastro. Ma che importa. È perfetto se però a Natale un pregiudicato che conosce Azouz non fosse andato dai carabinieri a dire che ha visto il «fratello della morta» e un tunisino all’ora e nei pressi della strage. Non c’è ancora un indagato. E che fa Gallorini col teste oculare che vede un Castagna e un tunisino che si presume sia olivastro come sul primo identikit fornito da Frigerio? Si tiene il verbale in caserma una ventina di giorni senza mandare nulla ai magistrati, fino a tre giorni dopo la conferma dell’arresto degli imputati. Dirà che aveva lavorato all’ipotesi, ma senza fare verbali. Quando Frigerio riconosce Olindo davanti al Pm, dicendo però che è olivastro, è ancora un po’ confuso. Poi lo riconoscerà, anche in aula. Quella sera viene trovata la famosa macchia sull’auto, una macchia della moglie di Frigerio. Il giorno dopo, Olindo viene per la prima volta iscritto sul registro degli indagati. Lui, perché su Rosa non c’è alcuna prova, ma verrà comunque arrestata. Neanche Frigerio la nomina mai, e nella prima perizia autoptica depositata si parla di un solo assassino, per giunta destrimane e non mancino come Rosa.
A inchiodare la diabolica coppia la macchia sull’auto e la testimonianza ferrea di Frigerio. E loro, spazzino e casalinga, che fanno? Cercano il minore dei mali, confessando. E qui la Gatto ha ragione: la versione dei coniugi combacia perfettamente con la ricostruzione dell’accusa. Olindo ne parlava nelle intercettazioni con la moglie, diceva di aver letto il provvedimento d’arresto. Poi, quando va a confessare, siccome tutto tutto non lo ricorda, i Pm fanno vedere a lui a e sua moglie le foto del massacro (risulta dal verbale del 6 giugno 2007) e oltre alle foto fanno sentire a Rosa tutte le dichiarazioni del marito che lei aveva poi confermato (come dal secondo verbale del 10 gennaio 2007 a Rosa Bazzi, pagine 4 e 6). Altro giallo: dalla trascrizione dell’interrogatorio del 10 gennaio 2007 di Olindo che andrà al Gip che ne deve confermare gli arresti, scompare come per magia una frase dell’audio di uno dei Pm: «Passiamo alla prossima fot...».
Le confessioni combaciano, dice la difesa, ma ci sono 240 errori rispetto alla perizia del Ris nel racconto di una strage compiuta in una manciata di metri quadrati. C’è la Cherubini che secondo l’accusa avrebbe fatto una rampa di scale con 43 colpi sul corpo, di cui otto che le avevano già sfondato il cranio, e che avrebbe sillabato la parola «aiuto» con la gola tranciata e la lingua mozzata. La prima autopsia sostiene che sia stata uccisa lì, nell’appartamento dove Olindo e Rosa diranno di non esser mai saliti. Ma se la vittima era ancora viva all’arrivo dei soccorritori, che in aula hanno raccontato quell’ultimo urlo, da dove sono usciti gli aggressori? Dal tetto? Non secondo il luogotenente Gallorini, che il 7 gennaio verbalizza ciò che ha fatto la sera della strage, quasi un mese prima: scrive che subito dopo la strage aveva escluso lui che gli aggressori fossero usciti dai tetti, anche se non ne aveva mai fatto cenno in precedenza. Così, a occhio, senza foto né Luminol. Troppe cose, sostiene la difesa, non tornano. Troppi pezzi del puzzle faticano a combaciare con la versione che per lungo tempo tv e giornali hanno trasmesso. Ma per l’accusa era ed è tutto perfetto.

Tanto che per convincere la giuria la Gatto ha mostrato il filmato che i Romano avevano realizzato per il vecchio consulente della difesa, Massimo Picozzi, nel tentativo iniziale che emergeva dalle loro intercettazioni, di farsi internare in manicomio con una confessione fiume. Un piccolo cameo: la perizia non fu mai depositata. Finì in un libro, poi finito agli atti, mentre il video finì in tv prima che in aula.
felice.manti@ilgiornale.it

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