Olmert: «Ci fermiamo se Hezbollah disarma»

Colpiti l’aeroporto di Beirut e una centrale. La Siria: «Appoggio contro l’aggressione»

Gian Micalessin

da Gerusalemme

Tre passi all’indietro per uscire dall’inferno, tre mosse per saltar fuori dall’abisso della guerra, tre condizioni per evitare una nuova invasione. Il primo ministro israeliano Ehud Olmert le sibila all’orecchio del segretario generale dell’Onu Kofi Annan, mentre i suoi cacciabombardieri sventrano i comandi di Hezbollah alla periferia sud di Beirut e i missili del partito di Dio terrorizzano il nord della Galilea. La cieca e reciproca pioggia di missili e bombe porta oltre quota sessanta le vittime del fronte libanese, mentre in un villaggio israeliano sul monte Meron muoiono dilaniati dalle schegge una donna e suo nipote. Per fermare tutto questo, per evitare nuove escalation - spiega Olmert al segretario generale dell’Onu - è il governo libanese a dover intervenire. Spetta al primo ministro Fouad Siniora, secondo Olmert, disarmare il Partito di Dio, ottenere la restituzione dei soldati rapiti e occupare con l’esercito il sud del Paese garantendo la fine dei lanci di missili. Kofi Annan dovrebbe insomma convincere il governo libanese ad applicare la risoluzione 1559 votata dal Consiglio di Sicurezza nell’ottobre 2004. Se l’esecutivo di Beirut non rispetterà le richieste di Olmert Israele aprirà nuovi capitoli dell’operazione «Giusta retribuzione» fino a quando Tsahal non avrà sradicato i guerriglieri di Hezbollah dal sud del Libano.
Una minaccia più facile da proferire che da realizzare. Lo si capisce non appena Hassan Nasrallah riemerge incolume dall’inferno di bombe scatenato sulla sua abitazione e sul quartier generale del movimento alla periferia meridionale di Beirut. «Ora bisogna decidere se arrendersi o continuare a far affidamento in Dio e nella vittoria. Israele vuole la guerra totale a Hezbollah per vendicarsi delle sue sconfitte, ma per me gran parte del Libano sta dalla nostra parte», dichiara il leader di Hezbollah nel discorso trasmesso da Al Manar, l’emittente televisiva di Hezbollah, subito dopo il bombardamento del quartiere di Dahya. Nasrallah non si presenta più come il capo del movimento sciita, ma come il simbolo interreligioso e sovrannazionale di tutto il Libano attaccato e bombardato. Fedele alla legge della rappresaglia, dichiara anche lui «guerra totale», promette nuovi attacchi più a sud di Haifa, nel cuore d’Israele. «Volevate la guerra aperta, bene siamo pronti a offrirvela», promette sprezzante Nasrallah. Intanto racconta che i suoi razzi «hanno colpito una delle navi israeliane davanti a Beirut affondandola». La nave galleggia ancora, ma in serata Gerusalemme ha dovuto rimangiarsi iniziali dichiarazioni che parlavano di danni modesti: al calar delle tenebre bruciava ancora, il timone inservibile e un rimorchiatore la stava riportando in patria. E se è vero che a bordo non ci sono feriti quattro militari risultano però dispersi. Quella nave - colpita da un aereo senza pilota di Hezbollah imbottito di esplosivo mentre l’impotente governo libanese resta a guardare - è il simbolo della rappresaglia. Il simbolo della capacità di Nasrallah di rispondere colpo per colpo, di rubare la scena a Olmert, di disinnescare i suoi ultimatum. La battaglia propagandistica ruba quasi la scena alla tragedia di una Beirut ripiombata nell’incubo del lontano 1982 quando gli aerei israeliani martellavano case e palazzi alla ricerca di Yasser Arafat. All’illustre predecessore bastava alzare due dita in segno di vittoria da un letto di macerie per conquistare la giornata. Nasrallah sogna di fare lo stesso. Poco importa che la strada per Damasco non esista più, che l’aeroporto sia stato colpito di nuovo, che una centrale elettrica sia in rovina, che tra le macerie della banlieu sud si muoia come 24 anni fa. Per Nasrallah le distruzioni inferte dalle bombe israeliane sono benzina a cento ottani, miccia di esplosiva propaganda.
E a sud dall’altra parte del confine gli israeliani di Galilea devono invece fare i conti con le sue minacce. Il nord d’Israele vive in uno stato di confusione l’incubo di quell’assedio missilistico, la tragedia di quella donna di Moshav Meron dilaniata assieme al nipotino di cinque anni da un missile piovuto dal tetto di casa. I feriti anche ieri si contavano a dozzine, superavano quota quaranta. Gli altri, i sopravvissuti, sono fantasmi sepolti vivi nei seminterrati blindati. Ma Nasrallah promette di colpire più a sud, e il capo di stato maggiore israeliano Dan Halutz quasi conferma le sue parole ricordando che i nuovi missili del Partito di Dio colpiscono fino a 70 chilometri di distanza.

Oggi, Shabbat di paura, potrebbe persino andar peggio, mentre il conflitto minaccia di allargarsi: ieri notte la Siria ha promesso il suo «pieno appoggio al popolo libanese e alla sua eroica resistenza nel far fronte all'aggressione barbara di Israele e ai suoi crimini».

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