Olmert promette: stop a nuove colonie e via alla liberazione di altri palestinesi

da Gerusalemme

Stentati ma volenterosi passi sulla via della conferenza di Annapolis nel Maryland mentre in coro l’opinione pubblica israeliana e quella palestinese seguitano a ripetere: ma che cosa ci andiamo a fare? Ogni giorno sembrano sorgere ostacoli sempre maggiori per qualsiasi accordo, eppure ieri il primo ministro Ehud Olmert si è incontrato con il Presidente palestinese Mahmoud Abbas, al secolo Abu Mazen, per vedere se alla fin fine si possa arrivare a un documento comune, così desiderato da Condi Rice come conclusione del summit. La risposta per ora, dopo 90 minuti di incontro, è sempre «no» anche se ogni tanto si fa balenare un qualche «ni»: gli sforzi per compiacere l’ospite sono veramente notevoli e la portavoce di Olmert Miri Eisen ha parlato di «progresso» e di un nuovo incontro per questa sera.
Olmert ha portato ad Abu Mazen il risultato immediato di altri cinquecento prigionieri palestinesi che verranno liberati nei prossimi giorni per rafforzare il raìs; su questo gesto è stato invece categorico il Capo di Stato maggiore Gabi Ashkenazi: è pericoloso e inutile, ha detto ieri.
Anche Bibi Netanyahu, il capo dell’opposizione, si oppone fieramente a qualsiasi concessione senza ottenere niente in cambio: «Vogliamo una pace seria, non surreale - ha detto -. Abbiamo un partner che parla ma non agisce». Olmert di fatto ieri ha ufficialmente confermato di fronte al Gabinetto che Israele non stabilirà nessun nuovo insediamento in Cisgiordania e comincerà a smantellare gli avamposti illegali. Lo fa, ha detto, perché così la Road map impone, e di nuovo ha così legittimato il documento del 2004 come base per ogni piano di pace e per la prosecuzione dei colloqui dopo Annapolis in cui, ha ribadito per l’ennesima volta, dovremo esser pronti a dolorose concessioni.
Il fatto è che la Road map parla anche della sicurezza di Israele come precondizione per stabilire la rotta verso lo Stato palestinese, e che Abu Mazen, invece, vuole chiudere su impegni per la consegna di territori, Gerusalemme, i profughi. E mentre si pensa che i conflitti territoriali, per quanto con difficoltà, possano tuttavia essere risolti, la vera questione si è presentata in tutta la sua drammaticità quando Sa’eb Erakat, il più classico fra i negoziatori palestinesi, ex sodale di Arafat, ha dichiarato, seguito da un cospicuo coro fra cui anche quello inaspettato degli arabi israeliani, che i palestinesi non riconosceranno mai Israele come Stato ebraico. Il tema viene sollevato con toni teorici, sostenendo che una religione non può fondare uno Stato: ma che gli ebrei siano una nazione e che solo in virtù di questo e con una vistosa maggioranza di cultura laica ed ebraica, sono rimasti in vita, lo sanno tutti. Questo punto di vista, però, funge da armonico accompagnamento alla questione dei profughi, la più problematica di tutte; Abu Mazen stesso ha di nuovo reclamato il diritto al ritorno ovunque vogliano, ovvero anche nel territorio israeliano, e non solo nello Stato palestinese prossimo venturo. Di fatto, dunque, si tratta di una negazione del diritto di Israele all’esistenza, una presa di posizione che sembra prendere coraggio, non essendosi mai espressa in termini così aspri e alla vigilia di una conferenza di pace, da un contesto internazionale influenzato dalla posizione dell’Iran che dichiara Israele illegittimo a ogni momento.

Dunque: Abu Mazen è forse un partner per la pace, ma proprio la sua debolezza lo sospinge verso la ricerca di un consenso nel vecchio modo di pensare palestinese alla Arafat, che rende impossibile accordi ragionevoli sul tema di base: due Stati per due popoli.

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