Roma - A diciassette anni di distanza da uno dei delitti più misteriosi avvenuti nella capitale, il presunto assassino di Simonetta Cesaroni potrebbe avere un nome e cognome. Matrix, la trasmissione di Enrico Mentana, dà la notizia quando ormai è piena notte: a uccidere la giovane in un ufficio di via Poma, il 7 agosto del ’90, sarebbe stata una persona molto vicina alla vittima, che ha lasciato la sua firma sul luogo dell’omicidio. Il suo Dna. C’è sempre stato, ma le tecniche scientifiche di allora non erano in grado di rilevarlo. Ci sono riusciti oggi gli uomini del Ris di Parma, grazie ai passi da gigante fatti negli ultimi anni dai metodi e dagli strumenti di indagine.
Mentana non lo dice, ma lascia capire chi possa essere l’uomo sui cui puntano i magistrati. L’indiscrezione, trapelata in un momento delicatissimo dell’inchiesta, provoca un piccolo terremoto in Procura, a Roma. Il pm Roberto Cavallone annuncia che querelerà Mentana: «Non poteva agire così, sapeva di dire cose false. Non è vero che è stato individuato l’assassino, le indagini sono state compromesse». Il procuratore capo Giovanni Ferrara parla di «illazioni prive di fondamento». Mentana non si tira indietro: «Notizie vere e verificate». Anzi rilancia e questa sera, sempre a Matrix, tornerà sull’argomento. Intanto rimane il giallo sull’uomo identificato grazie al Dna: la Procura smentisce che ci siano indagati e che l’inchiesta punti a una persona in particolare, ma il rapporto dei Ris si dilunga sulla compatibilità del Dna ottenuto lavorando sui reperti con quello di una persona bene precisa.
Di certo, dopo anni di stallo, l’indagine è a una svolta. I magistrati preferiscono andarci coi piedi di piombo, ma ammettono di non aver perso la speranza di incastrare l’uomo che ha massacrato la Cesaroni con 29 colpi di tagliacarte inferti a cuore, stomaco e pube. È sul reggiseno che indossava la ragazza quando venne uccisa, e finora mai analizzato, che gli investigatori hanno trovato le tracce di saliva da cui hanno estratto il Dna. Di un uomo, di una persona che Simonetta conosceva molto bene e che non ha avuto difficoltà a farsi aprire la porta dell’ufficio in cui lavorava. Ora, per attribuire definitivamente quel codice genetico a quello del killer, gli esperti del Ris dovranno confrontarlo in laboratorio con il Dna ricavato dai residui di sangue trovati su altri reperti, come le macchie ematiche rilevate sul vetro dell’ascensore di via Poma. «Su alcuni oggetti - spiega Cavallone - gli esami sono stati possibili, su altri le impronte genetiche sono latenti». I carabinieri del Ris ieri sono stati a piazzale Clodio per prendere documenti relativi a vecchi reperti: provette, mobili d’ufficio, un fermacapelli. Tutto quanto possa contenere tracce biologiche. Poi i risultati verranno incrociati con quelli già ottenuti. Per l’esito ci vorranno 60 giorni.
In questi mesi, mentre il Ris lavorava in laboratorio, i magistrati hanno riascoltato molte persone - amici, ex fidanzati, parenti, colleghi di lavoro - per approfondire aspetti mai chiariti. Soprattutto alla luce di un possibile spostamento all’indietro dell’ora del delitto: Simonetta sarebbe stata uccisa intorno alle 16, un’ora prima di quanto creduto finora. Di qui la necessità di rivedere gli alibi e le testimonianze non solo degli indagati ma anche delle persone finora solo sfiorate dall’inchiesta, molte delle quali hanno dato spontaneamente la loro disponibilità per effettuare il tampone salivare necessario alle comparazioni con le tracce rilevate a suo tempo. In altri casi i riscontri sono stati ottenuti analizzando i residui lasciati dalle persone interrogate su mozziconi di sigarette o tazzine da caffè.
Scettico l’avvocato Lucio Molinaro, che assiste la famiglia Cesaroni da 17 anni: «Se tutto ciò portasse a qualcosa, portasse alla verità, noi tutti riusciremmo a sopportare il nuovo clamore attorno a questa triste vicenda. Ma non c’è niente di nuovo».
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