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Omicidi&rapine: la letteratura fuorilegge

La letteratura è un’associazione a delinquere? Guardando le uscite in libreria, sembrerebbe che negli ultimi anni non siano mancati scrittori che si sono ispirati al proprio passato criminale per scrivere, magari nel corso di detenzioni piuttosto lunghe, uno o più libri: strettamente autobiografici, of course.
Non certo una novità: nel 1455, Guillaume de Villon uccide un prete nel corso di una rissa, fugge da Parigi, vi rientra, e non contento partecipa a un furto al Collegio di Navarra, primo di una lunga serie. Le sue tracce - anche per la giustizia, che lo cercava alacremente - si perdono nel 1463. È il capostipite di una linea di letterati delinquenti - anche nei contenuti - che nei secoli si è rinnovata con fervore: non è difficile trovare esempi. Un po’ più in alto e a destra, la pallottola che sfiorò il polso di Rimbaud avrebbe fatto di Verlaine un omicida: scontò comunque due anni di carcere. Una mira inconsciamente più precisa, da ubriaco, guidò il proiettile sparato da William Burroughs: la mela sulla testa di sua moglie rimase intatta, lei morì, lui corruppe la polizia messicana, evitò l’arresto. Jean Genet non fu l’unico a scoprirsi scrittore in cella: per fare un salto direttamente nell’oggi, Gregory David Roberts ha cominciato a meditare Shantaran nelle carceri australiane: dopo varie traversie editoriali, il libro è ora un bestseller editoriale à la Papillon.
Stanco di essere senza quattrini, appena lasciato dalla moglie, dipendente dalla coca, Richard Marinick diviene a tempo pieno membro della mafia irlandese di South Boston: una vasta gamma di attività illegali che aveva come core business le rapine ai furgoni blindati. Cercò di ravvedersi, ma non vi riuscì: dopo l’ennesimo assalto a un blindato e un inseguimento di venticinque chilometri tra le montagne del Massachusetts, si beccò tra i diciotto e i vent’anni e ne scontò undici nel modo più fecondo: laurea, master e corsi di scrittura creativa. Il romanzo nasce più tardi, in tre anni passati a bordo di una piattaforma affacciata su settanta metri di scavo, tra container e gabbiotti elettrici, ogni volta che poteva concedersi una pausa dal suo lavoro alla Local 88, una cooperativa di minatori. Il suo Boyos - «picciotti» - esce ora da Einaudi col titolo Bravi ragazzi, ed è tra i migliori romanzi criminali di quest’anno, insieme a Un cargo di orchidee di Susan Musgrave (Meridianozero). A proposito, l’attuale marito di Susan sta scontando una lunga pena per rapina a mano armata (il precedente era un narcotrafficante), mentre la biografia della scrittrice lascia intendere una radicata vicinanza sentimentale e poetica con l’universo carcerario.
Altra uscita «galeotta» è Cella 2455 (Baldini Castoldi Dalai) di Caryl Chessman, che a 27 anni ne aveva già passati metà in cella. La sua attività preferita era vestirsi da poliziotto e puntare una torcia rossa sulle giovani coppie che voleva aggredire. Scrisse altri tre romanzi, sempre dietro le sbarre di San Quentin: un giorno arrivò a fargli compagnia Edward Bunker, vorace nella lettura dei classici come nella rapina e nel furto d’auto. Fu Chessman a incoraggiarlo nella scrittura: ma Educazione di una canaglia e Come una bestia feroce erano ancora lontani. Verranno scritti nel corso di varie detenzioni, durante le quali l’autore trova tutto il materiale necessario: nelle confidenze dei compagni detenuti e in quello che vede, come il massacro nel carcere di Folsom tra detenuti di varie razze.
Descrivere l’orrore che si ha davanti agli occhi - sia esso il proprio passato o l’ambiente circostante - senza mai avere la certezza di essere pubblicati: è questo il fascino profondo di alcuni libri nati nel fondo di una cella.

«Diciassette anni, sei romanzi non pubblicati, decine di racconti non pubblicati, senza vedere una sola parola stampata su una pagina», racconta Bunker. «La scrittura era diventata la mia sola possibilità di uscire dal pantano in cui era scivolata la mia vita».

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