Onorevoli intercettati La sinistra non protesta quando è spiato il Polo

Su «Repubblica» le telefonate tra Ricucci e il senatore azzurro Comincioli. E l’Unione dimentica il garantismo

Stefano Zurlo

da Milano

Quando si dice la par condicio. O, se preferite, un’indignazione bipartisan. Sei agosto. La Repubblica mette in pagina una lenzuolata di intercettazioni. Fra le telefonate atterrate sui brogliacci della Guardia di finanza e sbobinate direttamente in redazione ci sono anche quelle fra lo «zio Romi» e Stefano Ricucci. Conversazioni irrilevanti ai fini penali ma utili per insaporire uno dei feuilleton dell’estate: la tentata scalata alla Rcs. Il marito di Anna Falchi preme per incontrare il premier, il suo interlocutore, lo si capisce lontano un chilometro, non ha nessuna intenzione di infilarsi in un pasticcio. E temporeggia: «Il presidente deve stare attento perché Roma non è la Sardegna». Ma chi è zio Romi?
Basta aspettare 24 ore. Domenica 7 agosto La Repubblica torna alla carica e pilucca alcuni frammenti delle discussioni fra zio Romi e Ricucci. Chicche fondamentali per i lettori. Chicche di questo tenore: «Sei riuscito a parlargli?» «No, è ancora in Consiglio dei ministri» (intercettazione del 1° luglio). Oppure: «Il presidente deve stare attento, Roma non è la Sardegna (conversazione del 5 luglio, già pubblicata il 6 agosto). La novità però è un’altra: a fianco, in un riquadro, il quotidiano specifica che zio Romi è un senatore di Forza Italia. Si chiama Romano Comincioli, ha settant’anni, e viene presentato, nientemeno, come compagno di scuola di Silvio Berlusconi. C’è anche una foto del parlamentare sotto un titoletto ammiccante: «Zio Romi» è Comincioli il factotum del Cavaliere.
Nulla da dire sugli articoli, ma, e questo è più preoccupante, nemmeno un flebile lamento da parte di deputati e senatori. Ma come, le conversazioni dei parlamentari non dovrebbero essere protette dallo scudo dell’immunità? Non dovrebbero essere omissate, come si dice con termine tecnico? E l’articolo 68 della Costituzione dov’è finito? Latita. C’è, invece, una spiegazione sottotraccia: almeno in un primo momento i finanzieri non avevano capito che zio Romi fosse un parlamentare. Ma il trenino di articoli, foto e titoli non provoca nemmeno un fremito dalle parti di Montecitorio e di Palazzo Madama. È vero, in quelle settimane di mezza estate, il flusso di rivelazioni assomiglia a un fiume in piena. È difficile osservare tutto quello che la corrente trascina: le spericolate manovre dei furbetti del quartierino, le intempestive parole del Governatore, le esternazioni della signora Cristina Fazio dall’utenza del senatore Luigi Grillo, perfino gli sms del diessino Nicola Latorre.
Il nome di Comincioli non mette però in moto il rito dell’indignazione collettiva, non calamita nemmeno due righe due di solidarietà. I colleghi tacciono. Il 2 gennaio, invece, il Giornale pubblica l’ormai celeberrima intercettazione fra Piero Fassino e Giovanni Consorte; questa volta scoppia il finimondo. Questa volta si scomoda la Costituzione. Questa volta ci si ricorda degli omissis. E si fa notare che il dialogo non ha rilevanza penale. Tutto giusto. Anche se forse gli italiani hanno letto con maggior interesse i dialoghi del segretario dei Ds sull’Unipol che non i tentativi, a vuoto, di Ricucci per agganciare il capo del governo. Il dato di fondo non cambia: il rispetto delle regole in Italia è a corrente alternata. Dopo momenti di grande attenzione, ecco i giorni della smemoratezza. Anzi dello smarrimento. Per la cronaca, Repubblica ha riproposto per la terza volta le telefonate fra Comincioli e Ricucci il 3 febbraio scorso. Rilanciando un servizio dell’Espresso in cui si svela il «meeting segreto» Comincioli-Fiorani avvenuto a San Vittore il 27 dicembre scorso.

Questa volta Comincioli precisa sul filo dell’ironia: «La mia visita era talmente segreta che avevo avvisato il direttore con un fax il 6 dicembre. E ci sono stato per incontrare Angelo Borra, l’ex patron di Radio One-O-One. Ma è vero, ho scambiato due parole con Fiorani. E pure con l’ex direttore della Bpi Gianfranco Boni. Un saluto e via».

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