Onorevoli scrittori: fanno i Machiavelli ma si credono Dante

Fra licenze poetiche e sonetti, l’arte di cercare rime è ormai bipartisan

Onorevoli scrittori: fanno i Machiavelli ma si credono Dante

Milano - Le licenze poetiche se le prendono tutti, dal «che c’azzecca» di Antonio Di Pietro al «uno che le palle ce le ha e non di velluto» di una Daniela Santanchè rivolta a Francesco Storace è tutto un fiorire di parabole e allegorie, ma è più la scarsa attitudine a utilizzare la lingua di Dante, che quella a poetare. Poi però, ti metti a caccia dei politici che han scritto poesie e scopri che c’è tutto un sottobosco di versi, roba che in qualche caso ti domandi perché i politici non abbiano scelto l’arte di Leopardi, piuttosto che quella di Machiavelli.

Certo, poi ti tocca ricordare che un paio d’anni fa l’allora senatore della Margherita Nando Dalla Chiesa gelò l’aula mettendo in rima il suo intervento contro la legge Pecorella («Bentornati senatori, dalle feste e dai ristori, tutti insieme per votare la gran legge secolare») e pensi che gli anni di piombo saranno pure stati bui, ma allora almeno c’era uno come Antonello Trombadori, il parlamentare comunista che ritmava la vita del Paese in romanesco: «Chi so’ questi che spareno e ch’ammazzeno/brigatisti der finto communismo», indimenticabile il suo habemus Papam per Wojtyla: «Ce l’avemo».

Se l’eredità, per fortuna, è stata raccolta dal figlio Duccio, ai giorni nostri il più noto politico a cimentarsi con i sonetti, si sa, è Sandro Bondi. La sua passione per la metrica è tale che neppure quel «le tue poesie non si capiscono» che gli disse Silvio Berlusconi lo frena, e ne ha avuta una per tutti, da Fabrizio Cicchitto a Michela Brambilla a Jovanotti, ne annunciò pure una per Romano Prodi. Il più importante è Giorgio Napolitano, ma lui nega. I critici si son detti più volte certi che ci fosse lui, dietro quello pseudonimo, Tommaso Pignatelli, che scrive ottimi versi in napoletano, eppure per almeno due volte il Presidente della Repubblica ha smentito. Poi ci sono gli insospettabili. Chi l’avrebbe detto, per esempio, che Silvio Sircana, il portavoce di Prodi, avrebbe esorcizzato con esilaranti strofe due anni di zuffe, dal cinico «mentre Prodi ci addormenta qui si addensa la tormenta» all’epico «Mastella, gli si spenga la favella».

Un tempo era arte da comunisti, uno dei più talentuosi era Pietro Ingrao, e così dev’esser in quella scia che si collocano più generazioni, dal poeta prestato alla politica Edoardo Sanguineti a Nichi Vendola, il governatore della Puglia iniziò a sette anni con una poesia che si intitolava «Mamma» e continua oggi fra un «Lamento in morte di Carlo Giuliani» e una raccolta come «Ultimo mare», che piacque pure al «Secolo d’Italia». Sì, perché oggi la poesia è bipartisan, par di capire. Negli annali di Forza Italia si contano almeno altri due poeti, vabbè, aspiranti tali. Alessandro Meluzzi che nel ’94 si produsse in un paragone fra «una foresta di castagni e un congresso», e Gioacchino Pellitteri, che così scrisse qualche anno dopo: «Ma che sta’ a di’ , je disse Berlusconi/ a Dini, che chiedeva appoggio e voti». Umberto Bossi sarà pure quello del dito medio alzato, ma ha all’attivo almeno una strofa: «Vegan da via il cü i padron/ mi da goma an fo pü».

Oscar Luigi Scalfaro scrisse poesie da giovane, Luciano Violante dedicò una Cantata ai bambini morti per mafia che piacque a tutti tranne che a Vittorio Sgarbi, Corrado Calabrò il garante delle comunicazioni scrive libri ma anche poesie, Fausto Bertinotti ha scritto aforismi, tipo: «Il comunismo ha fallito? E noi ci riproviamo», ma era tanto tempo fa.

Poi ti imbatti nell’ode a Letizia Moratti di Alda Merini e pensi che forse non ci starebbe male una legge: ai politici la politica, ai poeti la poesia.

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