Onorevoli sempre meno istruiti E tre su 100 finiscono in cella

Nel 1948 i laureati erano il 91,4%, sessant’anni dopo sono solo il 64,6%. In compenso sono i più pagati dell’Occidente: l’indennità è aumentata del 1.185%

da Milano

Sono sempre meno preparati, e sono pagati sempre di più. E più guadagnano, meno lavorano. E quando perdono le elezioni non vanno a casa, restano in politica. A meno che un magistrato non li mandi in galera, capita al 2,7 per cento.
Alzi la mano chi, prima durante e dopo il ciclone del «dagli alla Casta», non ha mai pensato: «Ho sbagliato mestiere». Vabbè ma il Parlamento mica è roba da tutti, è il pensiero consolatorio che viene subito dopo. Ebbene no. Adesso, che abbiamo tutti sbagliato mestiere è anche nero su bianco, in uno studio preparato per la decima conferenza europea della Fondazione Rodolfo De Benedetti. E così tutto il mondo è stato informato: i politici italiani sono i più pagati dell’Occidente, senza che alla busta paga corrispondano distinti meriti o particolare impegno. Anzi: ogni 10mila euro di extra reddito, diminuisce dell’1 per cento la partecipazione all’attività parlamentare. Già il titolo dell’analisi, «Il mercato del lavoro dei politici italiani», è impietoso, perché la domanda di partenza è se la politica sia «davvero una professione così diversa dalle altre», e la risposta è no per quanto riguarda l’utilità rispetto ad altre categorie, e sì rispetto alla convenienza economica.
Lo studio prende in considerazione 4.465 politici dal 1948 al 2007 e i risultati sono sconfortanti. Oggi i parlamentari italiani guadagnano 35mila euro in più dei colleghi statunitensi, tanto per dire. In 60 anni, il tasso di crescita medio annuo del loro reddito lordo è cresciuto del 10 per cento, contro l’1,5 (uno virgola cinque) negli Usa, potenza della possibilità di cumulare i redditi provenienti da altre attività. L’indennità, che nel 1948 ammontava a 10.712 euro attuali, nel 2006 era di 137.691, con un tasso di crescita del 1.185 per cento, alla faccia dell’adeguamento all’inflazione. «Entrare in Parlamento conviene - segnala la ricerca -: i redditi totali dei deputati nel primo anno di attività aumentano del 77 per cento rispetto a quelli dell’anno precedente». Che poi. Una volta almeno erano preparati: nella prima legislatura il 91,4 per cento del totale era laureato, e le scuole di Dc e Pci garantivano politici di alta qualità. Nella penultima invece, la quindicesima, i laureati sono scesi a quota 64,6 per cento e la qualità lascia sempre più a desiderare, nonostante gli sforzi selettivi soprattutto di Forza Italia, Ds e Margherita.
Più dell’incompetenza affligge la maestria nel cacciarsi nei guai, comunque. Nella Prima Repubblica i legislatori coinvolti in scandali giudiziari sono stati il 22,1 per cento, con un picco del 38,7 nell’undicesima legislatura, quella di Mani pulite. Del resto è proprio il carcere uno dei pochi modi per generare turnover. Esilarante il capitolo sul che cosa fanno dopo. Posto che in Aula entrano a 48 anni, più tardi che nel 1948, e ci restano in media 10,6 anni, la fine dei mandati non significa affatto che i parlamentari smettano di far politica: lo 0,1 per cento diventa presidente della Repubblica e/o senatore a vita, il 6 va in pensione, il 4,8 muore sul posto di lavoro ma qui i ponteggi non c’entrano e l’usura è dettata solo dall’età. Quanto agli altri, la metà resta in politica, imprenditori compresi.

L’altra metà è composta soprattutto da chi lavorava nel settore industriale: chi in Parlamento è entrato da operaio, in fabbrica spesso torna da manager.
Che fare? Eliminare il cumulo dei redditi come negli Usa, suggerisce la ricerca, e reintrodurre le preferenze nella legge elettorale. Ma resta come il dubbio che non basterebbe.

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