da Roma
Un rapporto burrascoso quello tra Umberto Bossi e Gianfranco Miglio. Iniziato nel 1989 con una vera e propria folgorazione ed interrottosi bruscamente solo cinque anni dopo con una delle più epiche scazzottate verbali che la storia della politica italiana ricordi. Una rottura che negli anni è andata via via smussandosi, soprattutto quando nel 1996 il Senatùr lancerà la crociata secessionista, cavallo di battaglia migliano già dagli anni Settanta. Fino ad arrivare al tributo che ieri gli ha regalato la Padania, quotidiano della Lega Nord. Che nel settimo anniversario della sua scomparsa dedica al «profeta del federalismo» le prime tre pagine. «Uno dei più sensibili costituzionalisti del Paese» cui il Carroccio ha deciso di intitolare la sala riunioni del gruppo parlamentare del Senato e una biblioteca in via Bellerio che raccoglierà tutti i suoi testi. Tra i quali, simmagina, ci sarà anche Io, Bossi e la Lega, pamphlet scritto dal Profesùr allindomani della violenta rottura del 1994. E niente affatto tenero verso il leader della Lega.
Già, perché quella tra Bossi e Miglio è stata una liaison convulsa. Conclusasi al meglio, se ormai dal 18 novembre del 2005 il «costituzionalista padano» è entrato a pieno titolo nel Pantheon della Lega. In quelloccasione, sempre dalle pagine de la Padania, il Senatùr dedica a lui e al giornalista Daniele Vimercati il via libera definitivo del Senato alla devolution («questo giorno di festa è anche loro»). Infine il tributo di ieri.
Daltra parte, con il federalismo nel sangue il focoso Miglio cè nato. E già nel 1975 teorizza lidea di una «Padania politico-amministrativa». «Se qualcuno vorrà governare questo Paese - scriveva il 28 dicembre di quellanno su Il Corriere della Sera - non potrà mai farlo seriamente senza riconoscere che esso non fu mai né sarà mai uno Stato unitario». Una certezza che il Profesùr continua a coltivare anche da preside della facoltà di Scienze politiche della Cattolica di Milano, convinto che «lo Stato unitario porterà solo peste e rovina». Per questo teorizza la rivoluzione federale fondata su tre macroregioni (Padania, Etruria e Mediterranea) più le cinque a statuto speciale. E sentenzia: «Noi abbiamo nelle vene il sangue barbaro, siamo legati al negotium, al lavoro. I meridionali, invece, vivono per lotium, il dolce far nulla».
Così, non sorprende che dopo lincontro con Bossi si butti a capofitto nellimpresa con una irruenza verbale che nulla ha da invidiare a quella del Senatùr. Un breve campionario: «Il linciaggio è la forma di giustizia nel senso più alto della parola»; «Questa classe politica rischia di andare incontro alla giustizia rivoluzionaria che è sempre sommaria»; «Siamo in una fase pre-rivoluzionaria e non escludo nemmeno un bagno di sangue». E ancora: «In politica non si danno giudizi morali e quindi io guardo con distacco al comportamento di Guglielmo II e di Hitler».
In pochi anni, Miglio diventa il teorico del leghismo, lintellettuale che dà concreta attuazione alla causa del Carroccio. Tanto che nel 1993 il Decalogo di Assago presentato al secondo congresso della Lega lombarda riprende quasi in toto la costituzione migliana. Peccato, però, che dopo la vittoria alle elezioni del 1994 la poltrona di ministro delle Riforme non vada al Profesùr ma a Enrico Speroni. Dando il via a uno scontro epico. Sentenzia Miglio: «Bossi è un bugiardo, arabo levantino con il gusto della menzogna, comiziante da bar, plebeo, tapino, orecchiante, botolo ringhioso». Il Senatùr, ovviamente, non si lascia intimidire e risponde per le rime: «Miglio è un minchione arteriosclerotico». E affonda il colpo: «Ma vai a scopare il mare...». Infine, la folgorazione astrale: «Miglio è una scoreggia nello spazio». Un botta e risposta indimenticabile.
Eppure, nonostante la violenza della rottura e gli scambi di reciproche accuse, il Profesùr tornerà ad avvicinarsi - seppur tiepidamente - alla causa leghista. Dopo la sua morte, il 10 agosto 2001, sarà invece Bossi ad avere parole di elogio.
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