Operai addio, la sinistra sta coi poteri forti

Arturo Gismondi

Fra gli striscioni portati in corteo per le strade di Roma nella manifestazione del 2 dicembre se ne ricorda uno che recitava: «Noi in piazza, la sinistra in salotto». C’è un po’ in questo slogan, o c’è molto, dei mutamenti che hanno cessato ormai di meravigliarci. Piero Fassino, col quale è tornata la tradizione del segretario del partito torinese dopo i rovinosi precedenti romani (Veltroni e D’Alema) è stato assai colpito da un altro segno dei tempi. Nelle stesse ore in cui gli operai della Fiat Mirafiori fischiavano i capi di Cgil, Cisl e Uil nella fabbrica-simbolo del proletariato italiano, in un altro luogo-simbolo, a Sesto San Giovanni, la vecchia «Stalingrado d’Italia», Massimo D’Alema con la sua fondazione ItalianiEuropei si intratteneva a convegno con il meglio del mondo bancario e finanziario nel quale sono in molti a vedere il cuore del potere, i famosi «poteri forti» del nostro Paese.
Con D’Alema c’erano tutti, gli ex politici che la privatizzazione di taluni istituti di credito ha portato alla testa di banche ragguardevoli per l’economia del Nord, da Fabrizio Palenzona a Roberto Mazzotta, a Giuseppe Guzzetti, ma c’erano anche i signori privati del credito, da Alessandro Profumo di Unicredit, a Pietro Modiano, uno dei big della fusione fra San Paolo e Banca Intesa, marito fra l’altro della ministra Barbara Pollastrini. Qualche giorno dopo Mario Monti, sul Corriere della Sera, si interrogava sui rapporti fra la politica e il potere bancario-finanziario che definiva innaturali. Perché, argomentava, compito dei politici di governo è solo quello di creare e far rispettare le regole di un sistema di mercato, o capitalista che sia. Un amico che si intende di queste cose mi esortava a non trascurare neppure il piacere reciproco della compagnia fra uomini che spostano montagne di danaro e altri che si parlano col tu con Putin e Condoleezza Rice.
Ma quel che colpisce, e che riporta a quello striscione del «noi in piazza e la sinistra in salotto», è la presenza a ogni livello, e ad ogni comparto per così dire dell'establishment di questo Paese, si tratti del circolo ristretto dei padroni delle banche, o di quello dei direttori dei grandi giornali, delle rappresentanze accademiche, dell'alta burocrazia e delle tecnocrazie nazionali ed europee, e dei manager alla testa di aziende pubbliche e private, di uomini della sinistra. Un percorso dalla sezione, dalla cooperativa, dal sindacato al management, una volta raro e impensabile. Più naturale la presenza della sinistra nei salottini dello spettacolo, delle canzonette, del cinema, della Tv, fra i comici e i satirici, frutto di un fenomeno di mimesi con l’ambiente. Costoro, del resto, fruttano di più, elettoralmente, di un rettore dell’Università o di un letterato.
È abbastanza straordinario che dopo la rivolta delle tute blu a Mirafiori, a teorizzare il ritorno degli operai sulla scena politica, e anzi la loro centralità, non sono stati tanto Fassino o D’Alema, Veltroni o Bertinotti. È stato Luca Cordero di Montezemolo che ha in testa uno schema, quello che ai tempi di Bruno Trentin e di Pierre Carniti si chiamava «l’alleanza dei produttori», che oggi lo stesso Luca di Montezemolo chiama il «patto per la produttività». Si vogliono dirottare risorse dalla spesa pubblica allo sviluppo. Ma i sindacati hanno altri interessi, i loro organizzati sono pensionati per lo più, impiegati del settore pubblico, della scuola. E contano di più degli operai in fabbrica. Tanto vero che questi, ogni tanto, si arrabbiano.
a.

gismondi@tin.it

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