Il cane non conosce il senso del tempo, vive ogni attimo come eterno. Ogni addio è assoluto e lui non è mai certo del tuo ritorno. La sua fedeltà, quel sentimento ereditato dai secoli del fuoco e della pietra, quella medaglia ancestrale di migliore amico dell’uomo, nasce da questa bastarda idea di assoluto. Il cane non ha mai paura di dire sempre. E in questo è la nostra antitesi. È buffo. È una beffa che proprio lui sia finito sugli scaffali dell’affetto a tempo determinato. L’uomo ha reso precario il simbolo della fedeltà.
C’è una parola che in questa stagione di forti incertezze ha un peso insopportabile. Sempre. È un’idea intollerabile, una mano alla gola, angoscia su spalle troppo strette. La fuga assomiglia a un istinto di sopravvivenza. È la sindrome dell’orizzonte piatto, una sorta di miopia esistenziale che serve ad anestetizzare i sentimenti. La risposta a qualsiasi affanno, a un giramento di cuore, a una colpa o a un perdono, arriva con la voce capricciosa di Rossella O'Hara: «Domani è un altro giorno». È una vita senza promesse. Forse ha ragione Zygmunt Bauman, il teorico della società liquida, quando dice: «Nell’impegno a lungo termine la ragione moderna individua l’oppressione, nella promessa vede il segno della dipendenza. Le relazioni sono fluide, beni a perdere, bambini e cani che non ci girano intorno, legami che non ci rendono nervosi. Dimenticare in fretta, cambiare rotta senza rimorso, evitando di giurare fedeltà eterna a qualcosa o a qualcuno. L’uomo liquido è sempre al lavoro, rimpiazza la qualità della relazione con la quantità, sempre con il panico di rimanere indietro o diventare obsoleto. Vogliamo relazioni che assomigliano allo shopping, con ricette, diritti stabiliti e promesse di soddisfazione fissate per legge. Come se l’amore obbedisse alle leggi economiche».
La parola sempre ha qualcosa a che fare con gli dei. È l’eterno che l’uomo ha cacciato dalla sua vita terrena. Esiliato. Rinnegato. Quello che resta è la paura. La ragazza che ti sta accanto si morde il labbro, ci prova, ma non riuscirà mai a sussurrare un «ti amerò per sempre». Se ti va bene si rifugia in un ti amo: hic et nunc. Nulla di più. Se va male si rifugia in quel salvacondotto dei sentimenti che è il «ti voglio bene», locuzione generica, che si porta dietro un buonismo ecumenico e non compromette nulla. Tutti in fondo in fondo ci vogliamo bene. E se mai dovesse arrivare all’altare puoi vederla sbiancare di fronte a quel «finché morte non vi separi» che ha il sapore di una condanna o di una maledizione. Basta a far svenire di angoscia il più coraggioso degli sposi. Nulla è per sempre.
Non la famiglia, non il lavoro, non la casa, il paese, gli amici, i ricordi. Neppure la pena. L’ergastolo è una punizione senza scampo, senza dubbio inumana, ma se c’è qualcosa che fa tremare i polsi è quel «fine pena mai». Sempre significa scegliere una volta per tutte. Troppa fatica, troppa responsabilità. È come scrivere a macchina, quando non c’era il «copia e incolla», quando l’errore restava lì sulla carta, come ricordo maligno e doloroso, che potevi sotterrare con una sfilza brutale di XXXXXX, o riverniciare con una mano di bianchetto, ma non potevi mai cancellare del tutto. Il pensiero liquido si adatta bene invece all’era digitale, dove il ricordo di quello che è stato resiste solo in una traccia della memoria remota, un segno invisibile che non ti brucia l’anima. L’unica follia, se si vuole, è questa ricerca scientifica dell’immortalità. La speranza di rigenerarsi cellula dopo cellula, oltre la morte e oltre la vita. La questione sarà poi cosa farsene di questa immortalità, frammentata come un filmato girato con il telefonino. Trenta secondi e zac. Trenta secondi e zac. E così via. La scelta senza rimedio, senza redenzione, non appartiene più a questo tempo. Se qualcuno vuole davvero l’eternità se la compri a rate. E senza dubbio da qualche parte c’è anche un dio che l’affitta.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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