Ora basta santificazioni, Pasolini resta un lupo

Sui media si ricorda lo scrittore come "mite" e" dolce", facendone una Maria Goretti in versione gay. Per capire l’opera e l’artista bisogna parlare della sua violenza e della sua ossessione per il sesso e la morte

Ora basta santificazioni,  
Pasolini resta un lupo

Non è imbarazzante parlare di violenza, masochismo, sadismo riguardo un grande poeta. Non lo è soprattutto quando Pier Paolo Pasolini, il più complesso e vaticinante artista dopo D’Annunzio, rischia di essere trasformato in una specie di Maria Goretti truccata da omosessuale tosto, che preferiva gli etero ai gay. È il coro di Facebook che lo vuole santificare, e anche di alcuni “intellettuali” televisivi, come recentemente capitato a Porta a Porta, dove di lui hanno detto: «Era un uomo mite». O come, ieri in un’intervista alla Stampa, Adriana Asti che lo ricorda sul set di Accattone «riservato, spesso imbarazzato, e dolcissimo».
È da tempo che si gira intorno all’idea che Pasolini fosse un violento attratto dalla violenza, eppure alla resa dei conti nessuno vuole accettarla, così si cerca di rimuovere a vantaggio della beatificazione, della vittima sacrificale, dell’agnello dato in pasto ai lupi. Non ci siamo, non si può come al solito accettare la potenza poetica e l’eleganza tutta italiana dello scrittore, e mistificare la sua vita.
Vincenzo Consolo mi raccontava che Pier Paolo passava le notti a rincorrere il suo fidanzato Ninetto Davoli. Urlava, urlavano. Il regista voleva prenderlo, l’attore scappava. Nella camera d’albergo si sentiva un fracasso che svegliava nel pieno della notte i clienti. Anche gli imbianchini, classe 1940, mi raccontarono che quando arrivava ai Castelli Romani con il suo Maggiolino, dopo i «rapporti» chiedeva di essere picchiato. Renzo Paris, invece, racconta di quanto Alberto Moravia fosse preoccupato per lui in India, alla ricerca delle location di Un’idea dell’India. Pasolini ingaggiava file di ragazzi che spesso scambiavano la sua porta con quella dello scrittore de Gli indifferenti, per non parlare delle notti newyorchesi...
Le scene di orgia collettiva che Pasolini descrive in Petrolio erano state vissute nei primi Sessanta tra Cecafumo e Cinecittà, sulla linea della Tuscolana. Sotto il Quadraro preferiva le «orine dei militari» che reclutava trenta alla volta per cinquecento lire a testa. Ma l’intera opera di Pasolini è spinta da una violenza che nella morte trova il suo porto glorioso.
Croce e morte, bambini e morte, accattoni e morte, borgatari e morte. La morte più naturale, perché del Cristo, è dentro L’Usignolo della chiesa Cattolica, però in I Pianti (1946), la morte famigliare cerca di piegare la forma delle poesie a croce, mentre nell’Haikai dei rimorsi (1949) alza il tiro includendo i bambini e una morte non scevra da imposizioni che ci rimandano alle parole di Alberto Arbasino sulla presunta pedofilia del poeta friulano. Scrive: «I fanciulli sono visioni atroci/ di morti; dov’è la loro innocenza?/ dove sono le loro seduzioni?/ Hanno gli occhi pieni di cenere».
Comunque è il suo cinema a riempirsi di violenza e morte. Accattone muore; in Ostia (soggetto e sceneggiatura di Pasolini) di Sergio Citti, sua voce barbara, uno dei due fratelli muore in mare in una crocifissione acquatica. Il figlio di Mamma Roma, Garofolo, muore. Anche Stracci muore al posto di Cristo in La ricotta. E nello struggente episodio di Capriccio all’italiana («Che cosa sono le nuvole») Totò, Davoli, Franco e Ciccio sono marionette e dunque morte. In apparenza non muoiono perché, pur essendo gettate nella discarica, guardando le nuvole in cielo sono in una specie di paradiso manierista e pittorico, oltre a essere trastullate dalla voce di Domenico Modugno che canta l’omonima canzone. «Ah, straziante meravigliosa bellezza del Creato», recita Totò.
Con Salò e le 120 giornate di Sodoma Pier Paolo Pasolini, prossimo alla morte vera all’Idroscalo di Ostia, usa la maschera sadomaso dei repubblichini per scatenare la sua sete di violenza e morte. Infatti il film non è soltanto il testamento di un poeta e cineasta bensì quello di un uomo. Di un uomo, di un «mostro», di una bestia non solo da stile. Non a caso, per radicalità e brutalità, Salò è a tutt’oggi difficile da accettare e vedere. Ha una forza talmente sconvolgente da spazzare via i Kubrick, i Polanski... Dunque è inutile appellarsi ai segreti di stato o alle trame eversive per accertare la sua scomparsa.
Pasolini colpiva e era colpito a suon di cric. Nelle borgate lo aspettavano per regolare conti di ogni genere. Lui prometteva una parte da comparsa e non rispettava la promessa. Prometteva e prometteva senza «assolvere».

Soprattutto non voleva assolvere se stesso. Progettava di scrivere il capolavoro. C’è riuscito lasciando in eredità ai posteri l’affaire Pasolini. Dunque, per favore, basta con i santini. «Giocate coi fanti, ma non scherzate coi santi».

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