«Ora ho un marchio d’infamia ma per me i bimbi sono angeli»

Parla Mario Alessi, il muratore accusato per concorso nel rapimento: «Ho un figlio cardiopatico sconvolto da queste storie»

Guido Mattioni

nostro inviato a Parma

«Per me i bambini sono angeli scesi dal cielo. E ora mi vedo contestare un crimine simile. Proprio a me. Ma io non sarei capace nemmeno di guardare male un bambino, figuriamoci una cosa così. E se penso che questa sfortuna mi è piovuta addosso soltanto per aver fatto dei lavori in quella casa, perdipiù sottoprezzo... Tutto per un pezzo di pane in più». È stanco, affossato nelle orbite, lo sguardo di Mario Alessi, 44 anni, il muratore di origine siciliana indagato per concorso nel sequestro del piccolo Tommaso Onofri. Accanto a lui c’è Antonella, pugliese, 33 anni. È la sua compagna dal novembre ’98, la madre di suo figlio (6 anni, cardiopatico dalla nascita), ma soprattutto una donna forte che questa e altre precedenti sofferenze hanno forse piagato, ma di certo non piegato. Guarda orgogliosa il suo uomo con due occhi mediterranei, intensi e scuri. E lo difende, come ha già fatto in passato.
«Mi hanno messo addosso un timbro che fa paura - prosegue lui alzando lo sguardo dalle mani, strette quasi a tormentare le ginocchia -. Hanno sconvolto l’esistenza della mia famiglia. Il bambino, che ha subìto il primo intervento al cuore quando aveva soltanto due ore di vita e che da allora deve prendere diversi farmaci, ha ormai perduto il normale ritmo tra veglia e sonno. Magari si addormenta alle 8 di sera, ma poi si sveglia alle 11 e fino alle 2 o alle 3 non c’è più verso che chiuda occhio».
Se le ricorda bene, Alessi, quelle irruzioni nella cascina dove abita, a Cosenzo, una frazione di Sorbolo, a pochi chilometri da casa Onofri. «Ci sono piombati dentro due volte, il 6 e l’11 marzo scorsi, sempre alle 4 del mattino, suonando il campanello senza alcun riguardo - racconta seduto nello studio dell’avvocato Laura Ferraboschi, passandosi una mano sugli occhi come volesse cancellare quelle immagini -. E da allora il piccolo è turbato, colpito da tutto quel rumore nel cuore della notte. Tanto che ora dovrò portare anche lui dallo psicologo. Io e Antonella ci siamo già stati».
Non ha avuto una vita fortunata, Mario Alessi. Nel 2000, rientrato in Sicilia per stare vicino alla madre rimasta sola, prestò un giorno il cellulare a un operaio che lavorava per lui. «Il mio è scarico», gli aveva detto l’uomo. Una cosa normale, che succede tra colleghi di lavoro. Invece, non l’avesse mai fatto. «Il 28 agosto di quell’anno, alle 21.15, non lo dimenticherò finché campo, Mario uscì per andare a prendere le sigarette - interviene Antonella - Be’, l’avrei riabbracciato soltanto sette mesi più tardi. E la prima visita in carcere, disperata e con un bambino di pochi mesi malato di cuore, me l’hanno concessa soltanto un mese e mezzo dopo. Perché la legge vuole così, se due non sono sposati. Devi avere testimoni che confermino la convivenza».
L’amico aveva usato il telefonino per scusarsi con una ragazza. «Quindici minuti di conversazione per chiederle perdono per come l’aveva trattata la sera prima. Le disse addirittura che le voleva bene e che voleva mettersi insieme a lei», racconta Alessi. Ma la ragazza, lui non poteva saperlo, aveva già sporto denuncia per violenza carnale contro il suo collega. E Alessi, per quel prestito, era stato accusato di concorso. «Chiesi anche una perizia fonica, ma dissero che no, che le due voci non erano confrontabili».
Un incubo assurdo, la probabile ennesima storia di ordinaria ingiustizia italiana per la quale non c’è stato mai ancora nemmeno lo straccio di un processo. Soltanto quei sette mesi in cella, per lui, senza la sua donna e il suo bambino. «E adesso, a sei anni da allora, quando il tempo sembrava aver sanato la ferita - si dispera Alessi - ci è piovuta addosso questa nuova accusa. Una cosa che ci ha distrutti totalmente; per il fatto in sé, ma anche perché conosciamo quel bambino. Non abbiamo più forze, non abbiamo più energie, siamo come seccati dentro. Oggi, per venire qui dall’avvocato, abbiamo parcheggiato a soli 500 metri. Ma farli a piedi ci ha distrutto».
Per fortuna c’è lei, Antonella. «Sono certa di lui oggi come lo sono stata allora. Gli sto vicino per quello», ripete orgogliosa.

E come mamma aggiunge: «Il mio ultimo pensiero, la sera, è sempre stato per mio figlio. Ma ora va anche a Tommaso. E così anche il mattino: bacio la mia creatura ma poi, durante la giornata, ogni volta che la guardo, mi trovo a pensare più di una volta: “Dove sarà Tommy? Che cosa starà facendo?”».

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