Ora l’Islam teme l’invito del Papa alla sana laicità

Massimo Introvigne

La partita che si è aperta in Turchia dopo la magistrale lezione di Benedetto XVI all’Università di Regensburg è assai più complessa di quanto sembri, e ha implicazioni profonde per tutto il mondo islamico. Come è noto, il Pontefice ha sostenuto che il dramma dell’islam consiste nell’avere separato la fede dalla ragione, il che ha aperto la strada alla giustificazione della violenza.
I giornali turchi, come tanti media occidentali, hanno la pessima abitudine di leggere dei discorsi del Papa solo i riassunti delle agenzie di stampa. Una lettura integrale della lezione di Benedetto XVI mostra che si tratta di un ritorno su un tema centrale del suo magistero, dove i mali del mondo moderno in genere - non solo dell’islam - sono ricondotti a un ricatto intellettuale secondo cui esistono due soli modi di relazione fra religione e cultura, e anche fra religione e politica: il fondamentalismo (la fede senza la ragione) e il laicismo (la ragione senza la fede).
Ma secondo il Papa le posizioni possibili nel rapporto fra religione e cultura non sono due ma tre: il fondamentalismo, il laicismo e la «sana laicità» che coniuga fede e ragione. Le religioni che procedono da Abramo hanno trovato in sé una via per sfuggire al fondamentalismo e al laicismo - ben prima che questi termini nascessero - grazie all’incontro con la Grecia classica. L’islam ha incontrato l’eredità greca, ma la ha ampiamente abbandonata nel XIII secolo. Anche in Occidente il tentativo di separare il cristianesimo dalla filosofia greca ha prodotto prima una fede separata dalla ragione (che è alle origini di un certo fondamentalismo protestante), poi una ragione senza fede che genera il laicismo. Analoghi processi si sono svolti nell’ebraismo.
In realtà, tutte e tre le religioni che riconoscono le loro radici in Abramo sono percorse da «guerre civili» in cui si contrappongono fondamentalismo, laicismo e «sana laicità», anche se nell’islam la posizione intermedia della «sana laicità», pure non inesistente, è rimasta a lungo marginale e minoritaria. Queste guerre culturali hanno anche una trascrizione politica. In nessun Paese islamico questo è più chiaro che in Turchia, dove coesistono il laicismo ispirato al positivismo di Kemal Atatürk, un fondamentalismo vicino ai Fratelli Musulmani annidato soprattutto nel Ministero degli affari religiosi, e un tentativo di creare una nuova sintesi assai vicina alla «sana laicità» di Benedetto XVI, conservatrice in religione ma aperta ai diritti umani e a una distinzione (che non è la separazione laicista) fra fede e politica. Questa sintesi ha radici che risalgono al XIX secolo ottomano ma oggi ispira gli ideologi del partito islamico moderato al potere, l’Akp del primo ministro Erdogan. Sia l’ala dell’Esercito più rigidamente laicista e kemalista, sia i fondamentalisti hanno tutto l’interesse a far fallire l’esperimento di Erdogan, per ora premiato ripetutamente dagli elettori turchi. Ma l’esperimento dell’Akp, che può essere un esempio per altri Paesi musulmani, si fonda su una politica che coniuga devozione islamica e buone relazioni con l’Europa, l’Occidente e la Chiesa cattolica. Per questo, sono i nemici di Erdogan che cercano uno scontro fra la Turchia e il Papa in vista della sua prossima visita.

Non è quindi così paradossale che la stampa laicista legata al kemalismo più intransigente e i funzionari fondamentalisti dell’islam di Stato si trovino uniti nel tentativo di utilizzare il discorso di Regensburg per avvelenare i rapporti fra Santa Sede e Turchia.

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