Immagino che in questi ultimi mesi di latitanza, braccato dai ribelli libici che sprezzantemente definì «ratti da sterminare», sotto i bombardamenti degli aerei degli Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Italia, Belgio e Spagna, Paesi che sino allo scorso anno lo corteggiavano contendendoselo per il suo petrolio e i suoi fondi sovrani, Gheddafi sia sopravvissuto con l’incubo di fare la stessa fine di Saddam, un tempo alleato in seno al «fronte del rifiuto arabo», o di Bin Laden, il rivale da lui spesso evocato per convincere il mondo a sostenerlo per impedire il dilagare del radicalismo islamico sull'altra sponda del Mediterraneo.
Purtroppo per lui, sulla sua sorte si è sbagliato. È stato beffato da un destino non meno spietato di quanto sia stata l’intera sua vita. Probabilmente Gheddafi avrebbe voluto morire da «martire» come il suo idolo Omar al Mukhtar, l’errore della resistenza al colonialismo italiano. Invece ha fatto la stessa fine di Mussolini, il nemico storico dell’odiata-amata Italia, che aveva eretto a valvola di sfogo primaria dell’incontenibile megalomania e paranoia di cui soffriva, unitamente alla schizofrenia e alla depressione da cui si curava sin dagli Settanta dopo la diagnosi fatta dagli specialisti in una clinica per malattie nervose al Cairo. Ucciso dalla sua stessa gente. Proprio lui che si sentiva a tal punto in sintonia con il suo popolo da aver ribattezzato la Libia «Jamahiriya», governo delle masse, rinunciando a qualsiasi titolo ufficiale come un padre la cui autorità non ha la necessità di essere formalizzata in seno alla famiglia che lui stesso ha creato. Era semplicemente il leader, il «qaid», il padre nobile di una grande famiglia che, a suo avviso, gli doveva essere riconoscente per averla riscattata dall’umiliazione del neo-colonialismo che continuava a sfruttare le risorse libiche e a comandare il Paese nonostante la presenza di una monarchia fin troppo acquiescente con l’imperialismo anglo-americano.
Di fatto più che un padre Gheddafi è stato soprattutto un padrone e un padreterno. Nulla in Libia si muoveva senza che lui l’ordinasse. La «Jamahiriya» più che un mito è stato un grande inganno per camuffare una delle dittature più ferree, protrattasi per 42 anni, la più longeva in Medio Oriente dal dopoguerra. Quante volte sono rimasto sgomento nell'osservare i volti impauriti, i busti incurvati fino alla prostrazione quando i suoi più stretti collaboratori erano ammessi a conferire con lui sotto la sua tenda eretta in qualche angolo dello sterminato deserto o persino all'interno di Villa Pamphili nel 2009 in occasione della sua visita ufficiale a Roma, pretendendo e ottenendo che capi di Stato e di governo, ministri altolocati e dirigenti delle multinazionali dovessero inchinarsi per poter accedere a una sorta di «Stato simbolico nello Stato reale», al cui interno l'autorità di Gheddafi era incontestabile anche se di fatto era ospite in terra straniera e sovrana.
La Storia lo ricorderà per aver illuso il proprio popolo, all’indomani della deposizione di re Idriss nel 1969 e la cacciata di circa 20mila italiani nel 1970, facendo credere che avrebbe trasformato l’immenso patrimonio petrolifero in uno stato di sviluppo e di benessere sufficienti per fare di ogni singolo libico un milionario. Gheddafi è stato letteralmente un folle. Ha sperperato un fiume di denaro per immagazzinare nel sottosuolo un arsenale di armi, dai cacciabombardieri, agli elicotteri, ai carri armati alle mitragliatrici. Ha finanziato il terrorismo internazionale, da quello nostrano, Brigate rosse, Ira ed Eta, a quello palestinese ed islamico. Ha sferrato guerre in Ciad, Sudan e Tunisia. È responsabile di crimini contro l’umanità per aver ordinato gli attentati contro gli aerei della Pan Am nei cieli di Lockerbie (dicembre 1988, 270 morti) e dell’Uta nei cieli del Niger (settembre 1989, 170 morti), a cui si aggiungono le atrocità passate e recenti commesse nei confronti della sua stessa gente così come emerge dalle fosse comuni che si stanno rinvenendo in Libia con migliaia di morti ammazzati.
Se vogliamo capire quale sarà il futuro della Libia nel dopo-Gheddafi dobbiamo aver presente l'immensa soddisfazione popolare per essersi affrancati da un dittatore che è stato clinicamente folle, sanguinario, guerrafondaio, dotato al tempo stesso della spregiudicatezza di chi è pronto a tutto pur di sopravvivere. Spregiudicatezza che andava benissimo all’Occidente fin quando Gheddafi garantiva le forniture di petrolio e gas, l'accesso al mercato interno, il deposito dei fondi sovrani in banche e società nostrane. Poi all’insegna della cosiddetta «Primavera araba», che cela la scelta di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia di portare al potere i Fratelli Musulmani in cambio della sconfitta degli islamici jihadisti e della stabilizzazione del fronte interno, Sarkozy ha promosso la guerra per scalzare dal potere Gheddafi. La prospettiva quindi è di un regime dove sarà rilevante il peso degli islamici che pragmaticamente imporranno la legge coranica e gradualmente radicalizzeranno la società.
Nessuno di noi rimpiangerà Gheddafi ma capiremo presto che è stato un madornale errore fare una guerra per portare al potere dei fanatici di Allah che, per il momento, hanno interesse ad occultarsi dietro un pugno di voltagabbana che da un giorno all’altro hanno abbandonato Gheddafi professandosi democratici e liberali.
Continueremo a ricevere petrolio e denaro ma in cambio nutriremo un nostro aspirante carnefice perché l’integralismo islamico concepisce la tregua ma non la pace con ebrei, cristiani e in generale con i nemici dell’islam.
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