Milano - Nell’ultima puntata messa in scena nel teatrino milanese, l’assessore a Cultura ed Expo Stefano Boeri riconsegna le deleghe, ma non la poltrona e lo stipendio. Il sindaco Giuliano Pisapia le riprende, ma non lo caccia. E ci pensa un po’ su. Tutti in cerca di un papocchio che consenta di uscirne senza sbattere contro il muro e lasciar sognare ancora un po’ chi ha creduto nel sogno di quella rivoluzione arancione che il soli cinque mesi ha già mostrato il suo vero volto. Quello della vecchia politica dell’inciucio a ogni costo. «Cerchiamo almeno di non rimetterci la faccia», ha detto il segretario del Pd Pier Luigi Bersani telefonando ai suoi. Perché in tutta questa incertezza, di sicuro c’è solo che a perdere sia proprio il Pd. Partito di riferimento di un centrosinistra che qualche volta riesce anche ad arrivare al potere, ma poi non è in grado di gestirlo. Ricordate il secondo governo Prodi? Tirò dentro un po’ tutti per battere Berlusconi e in meno di due anni di pesciate in faccia se ne andò a casa. Molto simile alla coalizione variegata nata a Milano per battere Letizia Moratti. Vincente alle elezioni, ma già in difficoltà. Perché la cronaca di oggi sull’incompatibilità tra Boeri e Pisapia è quella che normalmente si fa a fine mandato, quando i meccanismi grippano e ad emergere sono gli screzi. Magari covati a lungo. Ma a Milano sono appena cinque mesi. E la gioiosa macchina da guerra ha deragliato già alla prima curva.
Non male per una sinistra arrivata a guidare Milano dopo vent’anni. Perché Boeri non è un assessore qualunque. E lo strappo non è certo derubricabile, come si vorrebbe a sinistra, a un semplice contrasto tra caratteri forti. Tra due galletti che provengono dalla stessa altolocata borghesia milanese dei salotti e da una militanza (quasi scontata in quegli ambienti di ricchi) nell’estrema sinistra che a Milano maneggiava molotov e spranghe. Perché Boeri, figlio del famoso architetto Cini e dell’altrettanto celebre neurologo Renato, è stato il candidato del Pd alle primarie, poi vinte da Pisapia. Che a sua volta è figlio di Giandomenico che riformò il codice di procedura penale. E Boeri è stato l’uomo su cui lo stesso Pd, in decennale astinenza di vittorie, ha puntato alle ultime elezioni. Una prova di forza che ha lo portato a incassare 12.861 preferenze, secondo solo a Silvio Berlusconi. Cifre che gli hanno fatto sperare in un posto da vicesindaco. Che, invece, Pisapia gli ha subito negato, spingendo il Pd a offrirgli un ruolo da capodelegazione in giunta. Come a dire l’anello di congiunzione tra il sindaco e il partito. E allora si ha un bel dire che non c’è crisi politica. E, a voler fare un passo avanti, verrebbe voglia di chiedere a Bersani e compagni, cosa sarebbe successo se Boeri avesse vinto le primarie, diventando magari sindaco di Milano. I suoi colpi di testa? Perché è lo stesso Pisapia a dire che nei colloqui con i membri della giunta «è stato ribadito che il bene più prezioso è la collegialità del lavoro della squadra, collegialità che è stata infranta più volte da un solo assessore». Tutti gli interpellati «hanno, infatti, riaffermato come sia assolutamente necessario lavorare, come è stato finora nel loro rapporto con il sindaco, con unità di intenti e spirito di coesione, elementi fondamentali per realizzare gli obiettivi». Come dire che Boeri non sa lavorare in squadra. Ma Bersani non si dà per vinto. E tra un leopardo da smacchiare e l’altro, trova tempo anche per Milano. «Il Pd sta lavorando per creare un clima tale da riuscire ad aggiustare le cose», assicura.
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