Lapprovazione al Senato, ieri pomeriggio, del decreto legislativo sul fisco comunale, sul quale il governo oggi alla Camera chiederà la fiducia, è il compimento di un percorso assai accidentato, ma non è escluso che presto si debba mettere mano a nuovi interventi, al fine di rendere più concorrenziale il finanziamento degli enti locali.
Quanti difendono il federalismo fiscale il più delle volte usano largomento che una tassazione locale è più vicina ai contribuenti, agevolando il controllo sullutilizzo del denaro pubblico. Questo è corretto, ma non basta. Il vero punto di forza di un ordine autenticamente federale, infatti, sta nella competizione che deriva dal garantire autonomia decisionale ai livelli locali.
Se ogni comune avesse la libertà di fissare il «come» e il «quanto» del prelievo tributario, avremmo unaccesa concorrenza istituzionale, dal momento che le famiglie e le imprese tendono a collocarsi dove i servizi sono migliori e i costi inferiori. Questo ordine tende a replicare, in ambito politico, quanto accade sul mercato, dove le imprese si ingegnano per fare meglio dei competitori.
Ovviamente, nessuno deve pensare che perché questo meccanismo funzioni si debba necessariamente assistere a emigrazioni di massa: pochi, infatti, sono pronti a cambiare città. Perché gli effetti possano essere rilevanti è però sufficiente che la disparità tra città inefficienti e ben gestite guidi il comportamento di una minoranza. Quando tre anni fa la Arval Italia, unimpresa leader nel noleggio di autovetture (con un parco-macchine che supera le 100mila unità), decise di non immatricolare più a Firenze per trasferirsi in Lombardia e beneficiare del costo più contenuto del bollo-auto, quella scelta indusse lamministrazione toscana a una modifica della politica fiscale, sfociata nella riduzione dellimposta automobilistica per i soggetti del settore.
Daltra parte, in un recente volume ricco di spunti originali, Hans-Adam II - principe del Liechtenstein - suggerisce che in futuro si dovrebbe riconoscere solo ai comuni le imposte dirette: e questo al fine di innescare il massimo della competizione. In fondo, egli radicalizza qualcosa che, in parte, esiste già in Svizzera, dove una fonte importante dei bilanci comunali è il «moltiplicatore», che permette ai municipi di definire le entrate sulla base dei propri programmi.
Ovviamente, ciò potrà funzionare anche da noi se tre condizioni saranno soddisfatte.
In primo luogo, si deve procedere a una netta riduzione del prelievo fiscale nazionale. Le esigenze (sacrosante) di finanza pubblica non sono un alibi per rinviare quel ridimensionamento delle spese che può, al contempo, permettere una riduzione del debito e un taglio delle imposte. A quanti oggi sostengono che la riforma comporterà più tasse, il governo può rispondere avviando una coraggiosa «cura Cameron», ossia una massiccia riduzione degli organici pubblici nellarco dei prossimi anni.
In secondo luogo, quanto sopra si è detto funziona solo se i comuni possono «manovrare» i tributi. Nel decreto approvato ieri questa possibilità per i governi locali di modificare le imposte è assai poco presente, ma se la legge fissa regole e aliquote uguali per tutti il risultato è che i comuni più virtuosi non possono competere con quelli sciuponi, adottando una tassazione moderata. Su questi aspetti cruciali qualche modifica è necessaria.
Infine, è doveroso che lo Stato non falsi il libero gioco della concorrenza con eccezioni o salvataggi. In altre parole, un aiuto come quello che ancora di recente è stato concesso al Comune di Roma è inaccettabile, poiché deresponsabilizza gli amministratori, svuota di significato la competizione e, quel che è peggio, rinvia a data da destinarsi ogni ripensamento del ruolo dei comuni stessi (a partire dalla cessione sul mercato di controllate, partecipate e altro).
La scelta per il federalismo e soprattutto per quello comunale è giusta e doverosa. Ma ora è necessario che si proceda alle opportune correzioni di rotta, affinché la competizione tra città possa esprimersi al meglio. Nellinteresse di tutti.
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