Ore 4 e 14, ultimo contatto e poi una notte di mistero

Il primo brandello di certezza su cosa sia accaduto alle 23.14 nel cielo dell'Atlantico la dà, ieri sera, una breve dichiarazione di Philippe Hazane, presidente dell'agenzia spaziale francese. Hazane spiega che nessuno dei tre radiosegnalatori presenti a bordo dell'Airbus ha inviato segnali di emergenza ai satelliti che vigilano dall'orbita sui voli francesi. Sono segnali automatici, che partono al primo guasto. La dichiarazione di Hazane significa una cosa precisa: se neanche i radiosegnalatori hanno avuto il tempo di gridare aiuto, allora la tragedia del volo Rio-Parigi AF447 si è compiuta in frazioni di secondo. L'Airbus, insomma, è scoppiato in volo.
Da qui partiranno ora le indagini. Ma da qui bisogna anche partire per cercare di ricostruire - e le conclusioni sono, per quanto possibile, consolanti - gli ultimi istanti di vita dei 228 passeggeri dell'aereo francese. Negli annali delle sciagure aeree c'è un precedente agghiacciante: i quindici minuti di agonia dei 229 esseri umani infilatisi nell'Atlantico del nord, al largo della Nuova Scozia, su un volo Swissair, nel settembre 1998. Quindici minuti di terrore. La morte prima della morte.
Almeno questo alle vittime di ieri è stato risparmiato. La notizia di sms partiti dai telefonini dei passeggeri («ti amo», «ho paura») viene smentita con forza. Gli unici a capire qualcosa sono stati, probabilmente, i tre piloti. Ai comandi dell'Airbus c'è un veterano di Air France, un uomo con 18mila ore di volo sulle spalle. È lui che alle 23, quattro ore dopo il decollo, manda alla torre di controllo l'ultimo messaggio: «Abbiamo incontrato una forte turbolenza».
Dietro, se ne accorgono sicuramente anche i passeggeri. L'Airbus balla. Si balla in business, dove siedono i manager della Michelin e della Thyssen, e il principe Pedro Luis di Orleans e Braganza, quarto in linea ereditaria dell'inesistente trono del Brasile. E si balla ancora più dietro, in turistica, dove c'è la solita babele di lingue, di storie, di facce. I brasiliani e i francesi, soprattutto, ma anche i marocchini, i libanesi, i tedeschi, gli italiani. Ballano e magari un po' si spaventano i nove bambini imbarcati. Il più piccolo di tutti, un neonato, chissà se si spaventa anche lui. O se invece, lampi o non lampi, dorme tranquillo.
Cosa intende dire, il pilota, quando dice che «abbiamo incontrato una turbolenza»? Parla al passato, perché l'aereo è ormai fuori, e lascia l'annuncio per i colleghi che verranno dopo di lui sulla rotta? O dice invece che la tempesta - una tempesta non rara, per chi viaggia sull'Atlantico del sud all'inizio dell'inverno - è ancora lì, intorno all'Airbus? Di sicuro c'è che da quel momento il pilota tace. Ma l'aereo è ancora in volo, direzione nord est, verso le coste del Senegal. Sparirà dai radar tra i 26,59 di latitudine sud e i 31,52,64 di longitudine ovest. Forse la tempesta continua, le hostess fanno allacciare le cinture, mandano annunci tranquillizzanti. Oppure l'aereo ha ripreso a viaggiare diritto, in turistica ci si riaddormenta, in business si chiede un drink per dimenticare la piccola paura.
Alle 23.15 - ora di Rio de Janeiro - il sistema automatico dell’aereo dà il suo unico segnale di vita, avvisa un «malfunzionamento» del sistema elettrico.

I piloti tacciono, almeno via radio. Ma lì, nel chiuso della cabina, cosa si dice, in quegli ultimi attimi? La risposta è nella scatola nera, sul fondo dell’Atlantico al largo di Ferdinando de Noronha, tra i 4.000 e i 4.500 metri di profondità.

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