Ore 9,31: terrore sulla metropolitana

Alessia Marani

Un botto, come fosse una bomba. Poi il black-out e un fumo denso e acre, bianco, che in pochi minuti ha riempito corridoi e cunicoli rendendo l’aria irrespirabile. Poi il sangue dei feriti, molti rimasti a terra, le urla. Il tam tam è quello dell’«attentato» che corre fino in superficie, a piazza Vittorio dove cominciano ad arrivare le prime ambulanze e i vigili del fuoco, quindi la protezione civile a dare acqua e panini ai sopravvissuti. La mente vola agli attacchi di morte in nome di Allah sferrati ai metrò di Madrid e di Londra. Ma stavolta è «solo» un incidente. «Non so nemmeno io come ho fatto a uscire fuori da quell’inferno - racconta Donatella Pisanelli, insegnante al liceo linguistico Caetani - ho aperto a forza una delle porte, ero sul convoglio che ha tamponato, nei primi vagoni. Per fortuna dove ero io mi sono trovata subito davanti alle scale. Non si vedeva nulla. Ho sentito come un’esplosione, poi una seconda più piccola sotto la carrozza». Jennifer ha 19 anni, lavora in un negozio sulla Casilina: «Prendo sempre il trenino da Frascati, oggi (ieri, ndr) invece ho scelto la metro. Sembravamo topi in trappola. La mia carrozza s’è fermata in galleria, ho aspettato i vigili del fuoco che mi hanno aiutata a salire i gradini del marciapiede che porta in banchina». «Io - dice Daniela, trent’anni, impiegata - ho avuto paura a scendere nel tunnel. Ho percorso col cuore in gola il convoglio passando da vagone a vagone finchè non ho visto una delle porte che s’affacciava sulla banchina. Terrorizzata? Non credo che prenderò mai più un treno in vita mia. Attorno avevo gente ferita, tanti si sono fatti male cadendo dalle scale, travolti dalla folla in fuga».
Turisti francesi e giapponesi, studenti, casalinghe, pensionati, nomadi: a decine vengono fatti salire su autobus dell’Atac improvvisati ambulanze. I feriti, centinaia, vengono poi caricati sui mezzi di soccorsi e via via smistati nei nosocomi romani. Soprattutto al San Giovanni, l’ospedale più vicino - dove finiscono ben 130 pazienti, di cui 4 codici rossi, i più gravi -, al Policlinico Umberto I e a Tor Vergata, le strutture «collaudate» all’indomani dell’11 settembre per i disastri («In particolare - spiega Italo Volpi primario di Rianimazione al San Giovanni - la nostra équipe è andata a formarsi nei campi di Haifa in Israele dove il terrore e la violenza sono all’ordine del giorno»). Ma anche al Vannini e al Policlinico Casilino, dove finisce Angelo Tomei, il macchinista di 32 anni, rimasto praticamente illeso alla guida del Caf - il nuovo treno spagnolo - che ha tamponato l’altro mezzo in sosta alla fermata. «Ero sul secondo convoglio - racconta Emanuela, 33 anni - la cabina s’è accartocciata su se stessa. Sono viva per miracolo. Ma ho ancora stampata negli occhi l’immagine di un ragazzo che io pensavo fosse il macchinista, con le gambe incastrate tra le lamiere. Sono arrivati i pompieri, io sono riuscita a tornare fuori. Non so nemmeno come». Le notizie si rincorrono confuse: «Due morti, tre, no uno». Due romani su tre hanno un parente o un amico che la mattina sale sul metrò.La rete telefonica mobile è in tilt, il 118 istituisce un centralino a cui i parenti dei feriti possono chiedere informazioni sui loro cari.

Il papà e la mamma di Alessandra Lisi, 30 anni, ricercatrice di Pontecorvo (Frosinone), non ne hanno avuto bisogno. A informarli che la loro figlia adorata era morta nell’underground capitolina è stata una troupe di una televisione locale.

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