Cultura e Spettacoli

Oriana la guerriera delusa

Oriana la guerriera delusa

«Quasi niente quanto la guerra, e niente quanto una guerra ingiusta, frantuma la dignità dell’uomo» scrive Oriana Fallaci in Niente e così sia. In quei primi reportage dal Vietnam, usciti sull’Europeo, ci sono due Americhe. L’America che ha scatenato un conflitto sbagliato e l’America «delle marce contro la guerra in Vietnam, dei giornali che propagandano con dolore con sdegno un delitto che altri si guarderebbero perfin dall’ammettere». Il successo è colossale. Il governo di Ho Chi Minh, nel 1969, invita la giornalista a visitare Hanoi. Oriana riparte. Dopo il Sud, il Nord, al fine di completare l’esperienza del martoriato Sud-Est asiatico. Ne usciranno altri reportage, anch’essi editi dall’Europeo tra il 1969 e il 1975, e ora raccolti (con prefazione di Ferruccio de Bortoli) in Saigon e così sia (Rizzoli, pagg. 360, euro 20,50), dal titolo del famoso articolo sulla caduta della capitale.
La Fallaci che sbarca ad Hanoi forse intuisce cosa la attende: la disillusione completa. In Vietnam, come dirà anni dopo, non ci sono i buoni e i cattivi. La società del Nord non è giusta, come si era illusa che fosse. La ragione dunque non sta dalla parte «a stelle e strisce» della barricata, tantomeno in quella dove sventola la bandiera rossa. Appena arrivata, la coglie un senso di stupore che la spinge a tornare per un attimo al passato: «Sono i primi nordvietnamiti vivi che incontri, nel Vietnam del Sud li hai sempre visti morti: ricordi?».
Oriana aveva seguito in combattimento gli americani, con un’uniforme americana e documenti americani in tasca. Era stata su un A37 che aveva bombardato la zona del delta col Napalm. Ad Hanoi le manca subito la libertà degli americani, garantita anche «se parli male di loro», come lei ha fatto. Non può circolare da sola, è affidata a «due guardiane» che non la lasciano mai. Ne deriva un’angoscia crescente. «Mi sembra d’esser Pinocchio fra il Gatto e la Volpe». «È allucinante. Quattro ore sono bastate a trasferirmi in un racconto di Kafka, in un libro di Orwell». Le ragazze sono «sciatte, spettinate, brutte. Verrebbe voglia di urlare: datti un colpo di pettine, datti un po’ di rossetto, non andrai mica all’inferno se lo fai!».
Poi Oriana riesce a fuggire. «Tristezza mortificante» e «monotonia ossessionante» sono le caratteristiche della città. Sono vestiti tutti uguali, in blu come i cinesi. Fanno eccezione solo i soldati in uniforme grigioverde. I palazzi coloniali costruiti dai francesi recano solo lontane tracce della loro bellezza: sono fatiscenti, popolati in egual misura da uomini e topi. Non per effetto della guerra, dice la Fallaci. È rassegnazione alla decadenza.
Poi ci sono le storie. Sono storie di resa all’orrore. C’è la storia della signora Huyhun Thi Kien, portaordini e combattente. Racconta di aver ammazzato con le granate tre soldati americani. «E cosa hai sentito, Kien, quando sono andati a pezzi?». «Mi sono sentita felice. Con una gran voglia di ridere». Oppure sono storie di burocrati del regime socialista che godono di privilegi da capitalisti. Come Luu Quy Ky, redattore capo di un giornale, doppiopetto grigio, camicia di seta, cravatta, tre telefoni in casa, automobile con autista, stipendio da ministro. Oppure ancora storie di personaggi mitici. Come il generale Giap, il condottiero che sconfisse i colonialisti francesi nel 1954 e ora «vive in una bella palazzina coloniale, costruita dai francesi, arredata con mobili francesi». Ha un viso che sembra «incominciato e non finito», come la rivoluzione, e occhi intelligenti. Giap risponde educatamente. Peccato poi faccia recapitare alla giornalista la versione ufficiale dell’intervista: tre paginette purgate. Scompaiono perfino le domande, cancellate. Un monologo di propaganda.
C’è anche il famoso ritratto di Ho Chi Minh, scritto in occasione della morte del presidente vietnamita, avvenuta il 2 settembre 1969. Una presenza invisibile e insieme opprimente, come il Grande fratello di George Orwell, una specie di monaco comunista che «giunto al potere abitava, sì, nel palazzo presidenziale, però in due stanze arredate come la cella di un benedettino, un letto senza materasso, una sedia, un tavolo, una macchina per scrivere, un armadio e nell’armadio tre vestiti lisi al collo e alle maniche». Ho Chi Minh, un mito per i sessantottini, è il Saint-Just asiatico, uno «spietato esecutore» morto «senza avere toccato una donna. Vergine, ecco». Aveva, il tiranno, «quell’aria, mai ipocrita, di nonnino affettuoso cui puoi tirare la barba senza andare in prigione, e pazienza se in prigione non ci vai perché ti fucilano sul posto».
Solo in provincia, nonostante non cessi mai l’assillo di essere seguita, le sembra possibile stabilire un contatto di simpatia con i vietnamiti. Con le donne, soprattutto. Brutte, nate fra le privazioni, «cresciute col cervello rimpinzato dalla demagogia, dalle frasi fatte» al punto che conoscono solo due parole: «odio e dovere». O con i contadini, che lavorano nella melma tutto il giorno, alzando gli occhi al cielo di tanto in tanto per controllare che non stia arrivando un aereo pronto a spazzare via case e famiglie. In provincia si riescono a cogliere dettagli agghiaccianti. Ad esempio il cinematografo per bambini: il film racconta di un aereo col muso di drago che viene abbattuto; il pilota biondo si lancia col paracadute, piangendo; il pilota giunto a terra viene picchiato a sangue dai bambini...
E i piloti biondi come la pensano? I soldati americani sono protagonisti in molte parti del libro. Ma la loro voce si fa più forte nelle pagine scritte dalla Cambogia. L’invasione pare loro incomprensibile, oltre che troppo cruenta. «Quando torno a casa io voglio sposarmi e dimenticare ciò che ho fatto e che ho visto, e non parlarne mai più e non udire mai più la parola guerra. Non c’è bisogno della guerra per difendere la democrazia, e ammesso che noi si sia qui per difendere la democrazia». Parole a cui fanno eco quelle del comandante Vuong, vietnamita fatto prigioniero in Cambogia: «Io non odio più nessuno. Sono stufo di odiare. Non mi riesce più».
Il prezzo alla fine sarà pagato dal popolo vietnamita sul quale si chiuderà «la cortina di silenzio», divenuta «un muro invalicabile che chiude a chiave un popolo destinato a subire, a tacere, a soffrire».

Cosa vale la vita di un uomo in un posto così? Niente e così sia.

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