Il dibattito sulla «femminilizzazione della società» deve essere affrontato su due piani, uno storico-sociale e uno psicologico-individuale. Per quanto riguarda il primo aspetto, è da poco più di un secolo che le donne hanno avanzato la sacrosanta richiesta di contare quanto i maschi nella vita pubblica. Fu un trauma, ma nessuno oggi nega la legittimità di richieste come il diritto di voto, di studio, di accesso alle professioni. Tant’è vero che consideriamo arretrate - arcaiche, se non barbare - le società dove la donna viene tenuta ancora in stato di subordinazione.
Nel mondo contemporaneo, però, le grandi trasformazioni sociali si realizzano più rapidamente che negli individui. L’Occidente si era appena riavuto dallo choc delle suffragette ottocentesche quando negli anni Settanta arrivò il femminismo, con ulteriori richieste da parte dell’altra metà del cielo: ovvero che la parità non fosse soltanto nei diritti di legge, bensì nella vita quotidiana, nella morale, nei comportamenti. Tutte richieste - legittime - che hanno portato a una minore differenziazione dei ruoli. È una rivoluzione di tale portata da rendere comprensibili le preoccupazioni dei tradizionalisti alla de Benoist, anche se nessun tradizionalista riuscirà a fermarla: perché va nella direzione evolutiva del genere umano. Quella che, non basando l’esistenza sulla forza muscolare, rende più simili e intercambiabili maschi e femmine.
Sono più legittimi i dubbi avanzati da de Benoist e da Claudio Risé sul cambiamento dei ruoli all’interno della famiglia. In particolare sugli effetti che potrà avere sui figli il non disporre più di una figura materna e una paterna dai ruoli ben distinti. La madre non è più soltanto una dispensatrice d’amore addetta soprattutto al corpo (cibo, cure, vestiti, ecc.); il padre non è più soltanto la figura che introduce ai rapporti con gli altri, che insegna ad affrontare il mondo. Non c’è più, insomma, un ministro degli Interni con ruoli distinti da quello degli Esteri ma una direzione collegiale con ruoli interscambiabili.
Prima ancora di chiedersi se è un bene o un male chiediamoci quanto - e se - è possibile evitarlo: è molto difficile, una volta accettato (e considerato giusto) che la donna studi, lavori, contribuisca al sostentamento economico della famiglia, abbia ambizioni. Se entrambi i genitori lavorano è improponibile che la cura dei figli gravi tutta sulla donna. Né è un buon modo per risolvere la questione delegare tutto a tate, baby sitter, nidi e scuole: in questo caso si corre - davvero - il rischio di una femminilizzazione del genere umano. L’assistenza domestica, come l’insegnamento elementare e medio, sono ormai svolti quasi esclusivamente da donne: psicologi e pedagogisti sanno bene che è un danno enorme per lo sviluppo dei bambini, quasi del tutto privati di figure maschili nella fase importantissima dell’apprendimento. Non è colpa delle insegnanti, ovvio, anzi sono vittime di un errore del sistema: occupano un lavoro poco retribuito e perciò quasi abbandonato dai maschi. Però il problema è tanto più grave se si considera che tante, troppe insegnanti, scelgono quella professione non perché la amano e si sentono vocate, ma perché è un lavoro a tempo parziale e perché - peggio - sentono di potervi portare quello spirito materno che invece un’insegnante dovrebbe lasciare a casa.
Riguardo ai ruoli familiari verso i figli, poi, non credo che il padre debba rappresentare prevalentemente l’autorità e la madre l’amore. Il bambino riceve i primi ordini sia dal padre sia dalla madre, e sono ordini davvero autoritari su faccende per lui fondamentali, quando non è ancora in grado di capirne il perché: non mettere in bocca quella cosa e non toccare quell’altra, non mangiare con le mani, non picchiare gli altri bambini, falla nel vasetto. Quanto al problema della presunta perdita di virilità, sono d’accordo con Caterina Soffici. Padre fresco fresco che ha il privilegio di lavorare in casa, contribuisco alla cura del bambino senza per questo sentirmi meno virile, una certezza che sono sicuro di trasmettere al piccolo Nicola Giordano.
Sulla gestione dei figli, poi, mi sembra assurdo stabilire regole fisse. Non mi occupo spesso di pannolini perché la mia abilità e la mia delicatezza manuali sono modeste, mentre la mia compagna ha una manualità più adatta (e non per motivi di sesso), come è più portata al disegno e al giardinaggio. Non preparo pappe perché non ho mai cucinato neanche per me.
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