Da un libro Don Romano racconta - memorie di un ex galeotto (edito nel 2000 quando non poteva più recar danno a chi restò sotto sorveglianza oltre confine) alcuni fatti e dichiarazioni per capire il clima del 1945 in Venezia Giulia e Dalmazia.
1 maggio '45 Comunicato Alleato: da Trieste sono scomparsi 2260 italiani, da Gorizia 1560, da Pola 908. 29 marzo quando i tedeschi abbandonarono Trieste e entrarono gli slavi, Palmiro Togliatti ai triestini: «Accogliete le truppe di Tito come liberatrici». 19 maggio il Maresciallo Alexander: «I metodi di Tito sono quelli di Hitler» e sempre il 19 l'ambasciatore Tarchiani: «A Gorizia e a Trieste deportazioni, fucilazioni, regime di terrore, 4000 persone scomparse». Ancora: «Fiume aveva 56mila abitanti, 50mila sono fuggiti in Italia, 2000 sono i deportati, 183 le donne uccise».
Un passo indietro al primo periodo degli infoibamenti, dopo l'8 settembre '43. Il 28, il capo della Regia Marina Burgio afferma: «l'ammiraglio ha abbandonato l'isola di Làgosta convinto che gli italiani sarebbero stati fatti a pezzettini dai partigiani. Perciò fuggì per primo e lasciò che gli altri si arrangiassero».
Non partì don Romano Gerichievich, parroco di Làgosta, che nel '42/'43 aveva fatto costruire - segno di pace - il campanile della parrocchiale dedicata ai Santi Cosma e Damiano. Di questo risoluto salesiano, classe 1913, oggi la Tv Italiana direbbe «nato a Korcula», l'italianissima Curzola. Annota il sacerdote: «Le Tv Italiane oggi per le città dell'interno dicono Belgrado, Zagabria, Lubiana, mentre per le costiere usano la forma slovena o croata Pula Rijeka, Zadar, Split, Dubrovnik». Fa così risaltare un incongruo storico: la costa dalmata è sempre stata italiana, mentre all'interno si conviveva a macchia di leopardo e aggiunge: «Prima dell'ultima guerra mondiale i gruppi etnici vivevano in pace; alle Rogazioni per la benedizione dei campi un parroco ortodosso di Zara mandava al curato cattolico di Malpaga un biglietto perché lo supplisse, ortodossi e cattolici si univano in processione. Durante la guerra invece percorrevo vie con le case bruciate di qua o di là della strada a seconda della prevalenza di serbi, croati o musulmani».
Don Romano, abituato fin da bambino al valore dell'italianità, nel '43 restò con i suoi parrocchiani. Era bimbo quando nel '21 con il Trattato di Rapallo la Dalmazia (meno Zara e l'isola di Làgosta) fu ceduta alla Jugoslavia. Allora a Curzola, quando all'orizzonte scomparve il piroscafo con i soldati italiani e se ne profilò un altro con la bandiera di Belgrado, esplose l'ira dei croati contro gli italiani: fucilate contro le porte, sassate contro le finestre, urla di morte... La sua famiglia emigrò a Zara: «Senza lavoro, senza casa, con un'esistenza tutta da rifare. Chi non è vissuto in zona di confine - scrive il Don - non capisce lo slancio patriottico della nostra gente, fatto non di parole, ma di rimanere italiani anche perdendo tutto».
Subito dopo l'8 settembre a Làgosta arrivò un partigiano titino che diceva in piazza: «Per non sprecare munizioni abbiamo tagliato la gola a 400 soldati italiani giunti per combattere con noi dopo essere fuggiti per non andare con i tedeschi».
Don Romano, arrestato il 25 gennaio '44, riuscì a scappare a Lissa, però sua madre venne presa come ostaggio, perciò si consegnò all'Ozna (polizia politica) e il 18 dicembre '44 fu portato al carcere Karmen a Ragusa (ex convento delle Carmelitane). Condannato a morte e trasferito a Traù, prigione delle fucilazioni, la pena gli viene poi commutata a dieci anni: dopo un periodo nel carcere di Stara Gradika, è inviato nei campi di lavoro di Zalog e Marijin Dom.
All'inizio della prigionia un Commissario Politico aveva minacciato: «Non vi ammazzeremo con le armi, ma uccideremo in voi la personalità umana». A causa di stenti, umiliazioni e del continuo contatto con la morte, quando fu liberato l'8 ottobre '49, si sentiva ancora il numero 595. «Non provai nessuna emozione» scrive e dei sacerdoti, compagni di prigionia, annota che erano stati 120; da un altro libro «In odio Fidei» (di Ranieri Ponis) emerge che furono 23 i sacerdoti martiri in foiba.
Dal diario di don Romano, due episodi d'orrore e odio. A gennaio del '45 in carcere arrivarono mogli e madri dei «crociati», guerriglieri anticomunisti per motivi religiosi. Per farle confessare dove fossero gli uomini, costrette a ingerire una minestra salatissima e pane immerso in salamoia, pativano una tremenda sete. Ogni giorno lui e altri, andando al gabinetto, dall'inferriata allungavano loro una bottiglia d'acqua.
La settimana santa del '46, a Stara Gradika, con altri undici sacerdoti gli fecero disseppellire per il riconoscimento i cadaveri di zingare e serbe, trucidate dagli ustascia (fascisti croati) e gettate in due fosse comuni: «Perché siete voi preti che avete istigato questi eccidi...». Il giovedì santo una carceriera mostrò loro le foto di Pio XII e dell'Arcivescovo di Zagabria Stepinac, inveendo: «Sono i più feroci assassini dell'umanità e voi preti i loro servi».
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