Controcultura

Pace, amore e orgoglio: il testamento di Lennon

Pochi giorni prima di essere ucciso, l'artista fece il bilancio della sua vita. Nell'intervista definitiva

Pace, amore e orgoglio: il testamento di Lennon

Pochi giorni prima di essere assassinato, John Lennon disse al giornalista David Sheff, in una lunga intervista a due voci con la moglie Yoko Ono pubblicata da Playboy (ora tradotta in italiano presso Einaudi: All We Are Saying, pagg. 312, euro 19): «Il Mahatma Gandhi e Martin Luther King sono esempi perfetti di persone fantastiche, non violente, morte in modo violento. Non riuscirò mai a capirlo. Siamo pacifisti, ma non so che cosa significa essere così pacifisti e finire per essere uccisi. Non riesco a comprenderlo».

Sono passati quarant'anni da quando uno psicopatico assassinò il pacifista Lennon davanti alla sua abitazione, il Dakota Building, un palazzo neo-rinascimentale-anseatico fra la Prima West e la Settantaduesima Strada di New York, dove vivevano Leonard Bernstein, Lauren Bacall, Judy Garland, Rudolf Nureyev e decine di stelle del cinema e del teatro. Da allora tutti continuano a farsi la stessa domanda senza risposta. Non basta la follia di un invasato lettore del Giovane Holden, non basta il risentimento invido per un critico del sistema che accumulava milioni, non basta l'odio di un oscuro ominide per l'artista blasfemo che vantava di essere più famoso di Gesù. Il mistero permane, forte come la violenza omicida.

Legioni di ammiratori dei Beatles e di Lennon, nonostante l'assurda gratuità della sua morte, continuarono a nutrire astio verso colei che si riteneva corresponsabile della divisione dei Quattro Favolosi, la donna vampiro che affievoliva la forza creatrice, la non-moglie-non-madre ultra-femminista, la megera nipponica con velleità artistoidi, Yoko Ono. Pochi accettavano che l'amore di John per la Ono avesse segnato la fine naturale della gioventù, la nuova strada verso la maturità, suggellata dalla nascita del figlio Sean. «Appena l'ho incontrata, con i ragazzi è finita, solo che i ragazzi erano famosi, non erano semplicemente gli amici del bar. Erano ragazzi che conoscevano tutti. Ma era la stessa cosa... Però la gente si è arrabbiata da morire, si è infuriata! Fortuna che io e Yoko eravamo così presi l'uno per l'altra che ci siamo messi a fare dischi, a fare i bed-in, e in un modo o nell'altro, a forza di esplosioni, abbiamo trovato la nostra strada. Ma ci hanno tirato addosso palate di merda, un sacco di cose dolorose».

Lennon aveva sempre il sostegno dei fan più intellettuali, quelli che preferivano al pop geniale e commestibile di Help, Yellow Submarine, Hey, Jude!, Yesterday, Michelle, l'indian-rock-psichedelico di Strawberry Fields; i trip e i riferimenti lisergici di Lucy in the Sky with Diamonds; le frasi ermetico-surreali alla Lewis Carroll per canzonare Bob Dylan di I Am the Walrus; il super ossessivo ritmico Come Together; la confessione d'amore, quasi-incunabolo metal, per la heavy Yoko, I Want You; la burla agli ostinati cercatori di significati reconditi di Glass Onion, la bellissima ballata rock A Day in the Life. Le canzoni scritte nel dopo-Beatles traboccavano invenzione, coniugando semplicità e contenuti politici (la ballata slogan Power To The People, Working Class Hero, Woman Is the Nigger of the World, Gimme Some Truth, e soprattutto l'inno pacifista senza tempo, Imagine o Give Peace a Chance). Fra la guerra del Vietnam che sterminava una generazione e gli omicidi politici, dal presidente Kennedy a Malcolm X, Lennon decise di mandare le sue cartoline per la pace attraverso una forma di comunicazione potentissima, la canzone pop («la maggior parte della gente crede che si scrivano perché, essendo commerciali, ci si possono fare molti soldi. Non è così. La musica pop è la forma della gente. Quando gli intellettuali cercano di comunicare con la gente di solito falliscono. Lascia perdere tutto il ciarpame intellettuale, tutti quei rituali, e fermati ai sentimenti reali - i sentimenti umani semplici, quelli buoni - e cerca di esprimerli in un linguaggio semplice che arrivi alla gente. Niente stronzate. Se voglio comunicare con la gente devo usare il suo linguaggio. Le canzoni pop sono quel linguaggio»).

Lennon e Yoko Ono, dopo santoni e terapie dell'urlo liberatorio, separazioni e fiumi di alcol, si scambiarono i compiti genitoriali: lei businesswoman decisa e vincente, lui a casa con Sean, a farlo nuotare, o a fare il pane e a preparare i pasti per i collaboratori, ma sempre pensando a evolvere il suo pop. Non voleva risentire le canzoni fatte con i Beatles. Le riteneva tutte migliorabili e legate al passato. «Ho scritto Imagine, Love e le canzoni della Plastic Ono Band: brani che tengono testa a qualunque canzone io abbia scritto per i Beatles. Ora, forse ci vorranno venti o trent'anni per capirlo, ma il fatto è che questi pezzi sono all'altezza di qualsiasi altra cazzo di canzone mai scritta».

Sembrò il gran rifiuto a ricostituire un mito. Sembrò ostinazione non suonare con gli ex-Beatles nemmeno per beneficenza (Lennon e consorte preferivano dare a chi volevano la decima dei guadagni). Era rifiuto di diventare reliquia, di finire mummia galvanizzata a rockettare senza pudore, o malinconicamente a Las Vegas a cantare vecchi successi. Lennon aveva trovato a fatica il suo spazio e cominciava ad acquistare le forze per una nuova stagione creativa. Fino al fatale 8 dicembre 1980, ai colpi della calibro 38 di Mark David Chapman, il Caino moderno, che lo abbattono nell'atrio del Dakota, alla disperata corsa in ospedale e alla morte.

Petruska, il popolare Pulcinella russo delle fiabe, dopo essere stato ucciso dal violento Moro riappare minaccioso, prima che cali il sipario, sopra il baraccone del burattinaio. Il suo volto sembra affermare in un ultimo guizzo che il suo tipo non morirà mai. Così, se guardiamo in cielo, può sembrare ci appaia la faccia inquieta, gli occhialini tondi e i baffi da tricheco di quel capellone un po' annoiato e un po' beffardo. John Lennon potrebbe sussurrare le parole che diceva a chi lo considerava una marionetta di Yoko: «Io sono incontrollabile.

L'unico in grado di controllarmi, sono io».

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