Cultura e Spettacoli

PADIGLIONI INTERNAZIONALI

da Venezia

La provocazione è rimasta a casa, e con lei lo scandalo. Niente sesso né violenza, sangue o disgusto. È finita l’epoca dei Tampax e dei membri eretti, delle orge e degli anticristi, delle vacche segate a metà e degli imeni ricuciti. Nel 2011 l’arte parla un linguaggio più raccolto, poetico e metaforico, teatrale e politico, rifuggendo l’effettaccio facile e lo choc visivo. Si possono dire cose molto importanti, come il messaggio antimafia del Padiglione Italia, o prendere posizioni piuttosto dure ma il grand guignol e il sensazionalismo appartengono ormai ai ricordi del decennio trascorso. Ecco perché finora da Venezia nessuna polemica e nessun colpo di scena: la Biennale corre via al secondo giorno di inaugurazione, piuttosto affollato, con un’inconsueta tranquillità persino sospetta. Nella mostra centrale Illuminazioni e nei padiglioni nazionali è difficile trovare qualcosa su cui discutere, proposte che dividono drasticamente: è la rivincita del linguaggio, del fatto per bene. L’opera che tutti devono vedere è anche la più agognata, per via della lunga coda che si forma all’ingresso del padiglione britannico al cui interno è installato uno spettacolare caravanserraglio di Mike Nelson, cominciato alla Biennale di Istanbul del 2003 e rielaborato per Venezia: minuziosa ricostruzione del mercato orientale che, in qualche modo, finisce per somigliare al sistema dell’arte, dove si parla una lingua globale e si stipulano compravendite di opere come fossero spezie o tessuti. Nelson non è l’unica superstar cui è stato chiesto di misurarsi con un grande progetto. Anche la Francia ha optato per un nome sicuro, ovvero Christian Boltanski che ha lavorato ancora sulla suggestione dei volti di bambini scomparsi, destinati a vedere scomparire rapidamente la propria memoria ed evaporare a breve la traccia del loro passaggio sulla terra: l’allestimento, però è esageratamente macchinoso, persino in contraddizione con la leggerezza poetica del tema.
Al padiglione svizzero Thomas Hirschhorn presenta un ambiente ottenuto con materiali di scarto e rifiuti, a metà tra B movie di fantascienza e citazione dall’avanguardia Fluxus. Poco distante sembra di essere catapultati in un altro mondo, tecnologico e artificiale, dai profumi floreali e colori manga: siamo in Corea con Lee Yongbeak, ed è forse l’unica proposta che non include la politica e la critica sociale. Subito dopo il Canada sceglie il pittore «heavy metal» Steven Shearer che trae le sue immagini da webzine e riviste per adepti, interpretandole con stile ottocentesco.
Dalle ex periferie della Terra vengono comunque gli stimoli più forti e autentici, a testimonianza che la geografia dell’arte è definitivamente mutata e il distacco tra primo e altri mondi assolutamente fittizio; gli stessi Stati Uniti hanno scelto come rappresentanti due artisti non wasp, Allora & Calzadilla, autori di un gigantesco carrarmato rovesciato i cui cingoli sono utilizzati come tapis roulant. Diversi Paesi attuano un recupero degli anni ’70, ad esempio il Brasile con Artur Barrio e le sue «Situazioni» clandestine eseguite durante la dittatura militare. Un altro paese emergente, il Cile, riflette con Fernando Prats sul difficile equilibrio tra uomo e natura: l’artista viaggiatore ha percorso migliaia di chilometri tra i ghiacci dell’estremo Sud e il paesaggio desertificato da eruzioni vulcaniche e terremoti. Da premio la giovane artista Sigait Landau che rappresenta Israele, già molto conosciuta a livello internazionale.
Caricandola di riflessioni sociopolitiche, l’arte rischia di scivolare nell’eccesso di didascalismo, anche se quest'anno per fortuna minore è il numero di manifesti, videointerviste, materiale da consultare. Gli unici sussulti autenticamente emotivi si legano all’assenza degli autori scomparsi, seppur per ragioni diverse. Christop Schlingensief avrebbe dovuto progettare il padiglione tedesco, poi dopo la morte è stato deciso di utilizzare lo spazio per una riflessione sul suo lavoro che includesse i rapporti con la musica, il cinema e il teatro, filtrati dall’incedere della malattia che ne ha spezzato l’esistenza. Il padiglione dell’Egitto è invece dedicato all’unico artista che ha sacrificato la vita alla rivoluzione a soli 32 anni, ovvero Ahmed Basiouny, ucciso in uno scontro a fuoco il 28 gennaio 2011. Mentre in Egitto si sparava, lui correva per le strade filmando i disordini che poi avrebbe voluto diffondere in rete.

Le riprese dell’ultimo giorno non sono mai state trovate, ma dall’Egitto arriva il messaggio più forte contro qualsiasi tipo di dittatura e negazione della libertà.

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