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Un Paese svenduto alla casta dei pm

Nel 1998, pubblicai per Mondadori uno stupidario, riportando esternazioni e corbellerie, via via esternate dai magistrati di prima pagina. Il titolo era Toga! Toga! Toga! e chi ebbe l’avventura di acquistarlo se lo tenga stretto, perché è una sorta di anti-veleno sempre attuale.
Ogni singola espressione allora antologizzata dà tuttora conto delle patologie odierne.
Se si vuol sapere chi ha permesso alla casta togata di interferire sul Legislativo e sull’Esecutivo, sbirci la seguente mirabile idiozia dell’allora presidente della Repubblica:
«Non firmerò mai una legge contro il parere dei magistrati» (Oscar Luigi Scalfaro, 18 aprile 1997).
Se si intende capire perché il Pd appare sempre spaurito e genuflesso, quando si parla di riforme in ambito giudiziario, basterà chiosare il ricatto di Felice Casson, oggi senatore Pd: «Se il Pds attacca i magistrati dovrà fare i conti con la sua base elettorale...» (28 ottobre 1996).
Ai rari finiani, oggi pure professionisti dell’antimafia - il Pdl, quello civile e colto, sta con Leonardo Sciascia e con Enzo Tortora, non con Leoluca Orlando Cascio -, nonché sostenitori acritici dei giudici, forse sarà di ammaestramento questo brano, tipo «fascisti, carogne, tornate nelle fogne!», con in più il «Fini mafioso», tratto dalla sentenza del giudice veneziano, Giuliana Galasso: «Nella Costituzione è ancora vigente la disposizione che vieta la ricostituzione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista. E non è un mistero per nessuno che An è l’erede naturale del Msi, di diretta ispirazione fascista... Nemmeno è un mistero che An raccoglie voti al Sud... ed è anche noto che An è politicamente alleata con una forza politica, molti esponenti della quale non perdono occasione per muovere virulenti attacchi ai pentiti e ai processi contro la mafia, e non alla mafia... L’affermazione dunque che An sia contigua alla mafia... non è, come giudizio politico, sfornita di quel tanto che basta agli oppositori per trarne spunto nella loro campagna elettorale» (25 maggio 1996). Ergo, si può dire che Fini, Granata e Bocchino sono mafiosi.
I magistrati italiani sono buste standard, come «Quattro salti in padella», cosicché, a distanza di lustri, riecheggiano le stesse banalità apocalittiche di sempre.
Tanto rumore per nulla, direbbe Shakespeare, a vederli in deliquio per il «processo breve», come 13 anni fa, per la modifica dell’articolo 513 del codice di procedura penale, reso finalmente coerente con la Costituzione.
Nel 1997, gridarono, come oggi, che si trattava di «un colpo di spugna, un rimedio peggiore del male... Andrà tutto in prescrizione» (Gerardo D’Ambrosio, 7 maggio 1997).
Giovanni Salvi, pm romano, fratello del compagno Cesare, esternò: «In ballo c’è qualcosa di più del colpo di spugna: perché ora si tratta di assicurare l’effettività dell’azione penale, non solo per i reati di Tangentopoli ma anche per il furto di una gallina» (Corriere della Sera, 9 maggio 1997).
Giancarlo Caselli - a proposito, a quando le scuse solenni e pubbliche a Giulio Andreotti e a Calogero Mannino? - affermò che il nuovo 513 causava «una consistente caduta del controllo di legalità» (11 maggio 1997).
Il mio omonimo ebbe, poi, una caduta di tono, tanto da far irritare pure Eugenio Scalfari, scrivendo: «La mafia non c’è più. Non è la parafrasi della reclame televisiva di un olio che faceva sparire la pancia. È che la mafia è stata “abrogata” dal Parlamento italiano... Il Senato e poi la Camera, infatti, hanno approvato una nuova edizione dell’ormai notissimo articolo 513...» (24 luglio 1997).
Altri togati antimafia fecero il controcanto a Caselli. Lo Forte definì il nuovo 513 (cioè la regola elementare secondo la quale chi ha accusato qualcuno deve ribadire in aula e sottoporsi al controinterrogatorio) nientemeno che «una drammatica realtà». E, in aggiunta, dedusse che grazie a tale riforma «il crimine paga».
Il professor Vittorio Grevi, uno dei terminali della Procura di Milano, precipitò nella grulleria: «Il nuovo 513 rischia di avere effetti criminogeni...». Il togato Sebastiano Ardita ricamò: «... la modifica del 513 è un incitamento all’omertà» (19 agosto 1997).
A strillare «Al lupo! Al lupo!» per una norma civile e finalmente liberaldemocratica, non mancarono i pm del pool milanese, da Davigo a Colombo, sino all’immancabile Francesco Saverio Borrelli, secondo il quale il 513 riformato poteva «creare uno scenario di ricatti» (12 ottobre 1997).
Il 513 alla prova dei fatti non causò alcun terremoto. Eppure, 13 anni dopo, stesso vocabolario, con in più l’impudenza delle leggine ad personam, anzi ad personas, varate illecitamente dal Csm, per favorire un leader storico di Magistratura democratica, Vittorio Borraccetti, passato alla Historia per aver attribuito, per gli anni 1975-1980, quasi il 50% delle vittime del terrorismo alla destra fascista, contando anche le vittime della strage di Bologna, mentre il processo era ancora in fase istruttoria. E le Bierre, l’Olp, i terroristi arabi? Non c’erano.


Ebbene, il Csm, volendo Borraccetti procuratore di Milano, benché non ne abbia più diritto, ha ritoccato l’articolo 72 della legge 133/2008, imbucando, così, altri nove magistrati nel cono d’ombra del privilegio.
*Deputato Pdl

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