Colori, psiche e incubi. Una mostra da urlo tra i fantasmi di Munch (e gli amici inaspettati)

Cento capolavori del pittore norvegese per svelarne il "Grido interiore" e i lati inediti

Colori, psiche e incubi. Una mostra da urlo tra i fantasmi di Munch (e gli amici inaspettati)

Alla mostra Munch. Il grido interiore, da oggi e fino al 26 gennaio a Palazzo Reale di Milano (poi approderà a Roma, a Palazzo Bonaparte) non vedrete L'Urlo, il quadro più pop del mondo dell'arte, l'unico ad essere diventato un'emoji. Per fortuna. Dopo i rocamboleschi furti e ritrovamenti, prima nel 94 e poi nel 2004, di due delle versioni del celeberrimo e fragilissimo dipinto, i musei di Oslo che li possiedono, il Nazionale e il nuovo Munch Museum, ne centellinano i movimenti. C'è però esposta a Milano una litografia dell'Urlo: «Un'opera radicale, non meno importante del dipinto», ci dice la curatrice Patricia G. Berman, una delle più grandi studiose al mondo di Munch. È lei ad aver selezionato le cento opere tra cui capolavori assoluti come La morte di Marat, Malinconia e Le ragazze sul ponte (immagine-guida della mostra) dal Munch Museum di Oslo, che ha collaborato con Palazzo Reale e Arthemisia alla produzione di questa mostra-da-urlo. Perché se è vero che con Munch si vince facile il pittore nordico tormentato, quello a cui son morti, uno dopo l'altro, sorella, madre, padre e fratello, quello che è stato mollato e anche ferito dalla sua unica fidanzata ufficiale, quello che è campato a lungo, ma da alcolista solitario - questa mostra (la prima a Milano da quarant'anni) ha il merito di farci conoscere un Edvard Munch (1863-1944) inedito.

«Per anni l'arista è stato sovrapposto al personaggio dell'Urlo ci dice Berman, mentre visitiamo la mostra , ma Munch è molto di più. Tutti conoscono i suoi dolori famigliari e le malattie che lo hanno travagliato, ma pochi sanno che è stato anche un abile businessman, un uomo ambizioso e gran lavoratore che gestiva in prima persona la sua arte, trattava con mercanti e collezionisti, curava le sue esposizioni e quelle degli amici». Sì, Munch aveva amici, parecchi. La mostra a Palazzo Reale allestimento elegante ad eccezione di un inutile corridoio tra una sala e l'altra tutto specchi e musica - ben lo racconta nella prima sezione. Questa si apre su Malinconia, un lavoro del 1900 dove i temi della sua arte (l'inquietudine) e i colori (arancio, vermiglio, blu) son già tutti rappresentati. Poco più in là incontriamo gli amici de Il circolo bohémien di Kristiania: sono seduti al tavolo, il bicchiere in mano. È con loro (Kristiania è l'antico nome di Oslo) che Munch discuteva fin da ragazzo di un nuovo modo di fare pittura. «Non dipingo la natura: la uso come ispirazione», dirà. E ancora, con maggiore precisione: «Non dipingo ciò che vedo ma ciò che ho visto». Vale a dire quello che è già stampato sulla retina: «Per Munch la vista interiore del pittore si sviluppa a partire dalle esperienze fatte», spiega Patricia G. Berman.

Se i viaggi in gioventù in Francia lo rendono permeabile alle tecniche del Neoimpressionismo, è la Berlino di fine Ottocento che gli regala confronti con quelli scienziati che lavorano e studiano la psiche. «Munch capisce subito che la mente non è neutra», chiosa Berman mentre siamo nella seconda sezione della mostra, intitolata «Fantasmi». Qui ci sono i ritratti strazianti dell'amata sorella Sophia, morta quando lui era poco più di un bambino, qui spiccano le scenografie per gli Spettri di Ibsen, andati in scena nella capitale tedesca. Non molto distante, Disperazione, una tela del 1794, è una sorta di Urlo con il volto contrito e lo sguardo basso. Da qui la mostra è un crescendo, con un'infilata di baci (dipinti, in china, in litografia), tra cui Il bacio della morte e Gelosia in cui Munch mette a nudo tutte le sue pulsioni. «Il suo più grande sforzo è stato quello di esprimere l'inesprimibile», dice la curatrice.

Capitolo misoginia. In mostra sono tante, una più bella dell'altra, le donne-Madonne-vampiro e una sala è dedicata a Tulla Larsen, l'unica donna che Munch avrebbe dichiarato di voler sposare (ma cui negava intimità perché troppo impegnato a dipingere). La loro relazione finì durante un viaggio in Italia, con un colpo di pistola che mozzò un dito del pittore. La curatrice precisa: «Affermare che Munch sia stato in misogino solo perché rappresentava spesso donne succhiasangue al collo degli uomini è un po' semplicistico. Con Larsen ha avuto una relazione turbolenta, ma nella vita ha avuto molte altre e meno note amicizie femminili che definiremmo normali. Anziché misogino, direi che Munch ha voluto mostrare il potere che certe donne esercitano su certi uomini. Psichicamente fragile, ha vissuto in maniera pubblica, sublimandoli in arte, la depressione, l'amore non corrisposto, la solitudine».

Nelle ultime tre sezioni delle sei in cui è scandita la mostra vediamo i lavori realizzati nel nostro Paese, a Roma e a Venezia in particolare, e una serie di nudi maschili e paesaggi che testimoniano la varietà del suo stile, l'attitudine a sperimentare. Il percorso si chiude su Munch-performer: «Si metteva davanti allo specchio per ore e indagava tutti gli aspetti della sua personalità», commenta Patricia G. Berman. La vera chicca è in una sala laterale, dove ci sono spezzoni di suoi filmini amatoriali.

Eccoci poi davanti a un'infilata quasi ossessiva di autoritratti sotto forma di fotografie di profilo, di litografie in bianco e nero, di dipinti infuocati (Autoritratto all'inferno), drammatici (Autoritratto dopo la febbre spagnola), dimessi (Autoritratto tra il letto e l'orologio) e perturbanti (Il viandante notturno). Frastornati, ci si affaccia all'ultima sala dove le rasserenanti Ragazze sul ponte, con le loro campiture larghe di colore, ci congedano ricordando che persino nel profondo Nord, talvolta, l'estate fa capolino.

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