Un paio di jeans a 10 euro ecco lo shopping democratico

Un paio di jeans firmati a 10 euro, l’equivalente di cinque ovetti Kinder oppure di una compilation su iTunes, un euro e 80 meno di due Big Mac con altrettante porzioni medie di patatine e Coca Cola. Saranno in vendita dal 9 aprile nei principali Coin d’Italia fino ad esaurimento delle scorte: 5.000 pezzi in tutto, sempre con fondo blu e dettagli rossi ma con grafiche diverse per uomo e per donna. Disegnati dalla giovane stilista giapponese Yuka Morinishi, prodotti in Tunisia senza comunque rinunciare al protocollo etico dell’azienda che vieta orrori tipo lo sfruttamento del lavoro minorile per contenere i costi produttivi, questi jeans segnano il lancio del progetto Democratic Wear di Coin.
«In settembre lanceremo una giacca da pioggia disegnata da un giovane designer canadese, in novembre il piumino progettato da un esquimese, poi si vedrà: stiamo pensando addirittura a una poltrona da mettere in vendita come tutti gli altri articoli a 10 euro» spiega Francesco Sama, direttore generale del Gruppo Coin, un colosso da 1.650 milioni di euro all’anno con circa 9.000 dipendenti e 700mila metri quadri di superficie vendita contando anche i department store del marchio Ovs Industry e la recente acquisizione di Upim. Su quest’ultimo brand che nel 2009 ha perso la bellezza di 40 milioni di euro, il Gruppo di Mestre sta già mettendo a segno un’aggressiva strategia di riconversione. «Dal 6 al 22 aprile apriremo sei nuovi Coin al posto dei vecchi negozi Upim di Pisa, Lecco, Messina, Reggio Calabria, Parma e Pavia - racconta il manager - ma la cosa più affascinante da fare in questo momento è lanciare attraverso Coin un nuovo modo di comunicare con i giovani. In poche parole vogliamo dare un segnale forte di democrazia e civiltà a quel segmento dei consumatori che per molti motivi tra cui l’età non ha un grande potere d’acquisto. Rompendo la barriera del prezzo attiriamo i giovani nei nostri negozi invitandoli a riflettere sui fondamentali della vita». Inevitabile a questo punto chiedere se i dettagli in rosso che identificano i prodotti Democratic alludono anche al colore politico dell’operazione. Durissimo Sama risponde che la democrazia non è né di destra né di sinistra: il rosso in questo caso viene usato come colore che attira l’attenzione e che su tutti si fa notare. Altrettanto ferma la risposta su costi e ricavi: «Se non ci perdiamo è un miracolo». Pare infatti che il costo produttivo di un jeans basic oscilli dagli otto ai 25 euro al paio senza la catena logistica e distributiva che ogni grande azienda di moda deve pur prevedere per vendere i suoi capi al grande pubblico. «Per noi è un investimento» ripete snocciolando una serie di notizie interessanti. Per esempio la grafica del Democratic Jeans prende spunto dalle immagini che in Giappone rappresentano le caratteristiche maschili e quelle femminili: il samurai come simbolo di forza e potenza dell’uomo, il kimono in omaggio a quelle doti di grazia, bellezza ed eleganza tipiche delle donne.
«La stilista si è ispirata alla cultura del suo paese per creare modelli che tengono conto della diversità fisica ma non morale tra uomo e donna» conclude Sama. «Quando sono entrato nel Gruppo quattro anni fa l’amministratore delegato Stefano Beraldo mi ha spiegato molto bene che il progetto di Coin era contenuto nello slogan New Shopping Experience, una nuova esperienza nello shopping». Il Gruppo ha imposto un protocollo etico ai propri fornitori, perfino più severo di quello che H&M ha affidato ai controllori dell’Onu.

Perché il punto d’arrivo è proprio questo: battere la concorrenza sul territorio italiano, conquistare quel target che non ha tanti soldi da spendere, ma senza dubbio segna la differenza tra ciò che è di moda e ciò che non lo è, il pubblico giovane. Per questo tipo di consumatori bisogna studiare prodotti come si suol dire «cool». E una limited edition da 5000 pezzi in tutto non può essere definita in altro modo.

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