Il pacco di fogli scritti fitti sta lì, arrivato fresco fresco e beffardamente posato sulle scrivanie di tanti piccoli e medi imprenditori, in apparenza innocuo ma in realtà insidioso come una trappola avvelenata. Centinaia di pagine scritte in modo incomprensibile per regolamentare la «valutazione dello stress lavoro-correlato». Se fosse un’idea pubblicitaria di qualche setta tipo Dyanetics basterebbe ignorarla, peccato che si tratti di una legge dello Stato e, per chi vuole fare le cose correttamente, non resta che rassegnarsi a perdere giorni preziosi per tentare di adeguarsi alla normativa.
Il regalino delle valutazioni antistress è un altro dei tanti sacchetti di sabbia piazzati negli ingranaggi della nostra economia dal parlamento della scorsa legislatura che, anche sulla scorta del disastro della Thyssen accaduto alcuni mesi prima, il 9 aprile 2008, approvò a camere già sciolte un immaginifico decreto attuativo in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro contenente il provvedimento di cui sopra. Se ci sono fondati dubbi che si possano stressare di meno i lavoratori ex lege, di certo si stressano di più gli imprenditori, affogati in una vera e propria palude di regole ed adempimenti per i quali occorrerebbe un battaglione di giuristi anche solo per poterli leggere e capire, nonché una squadra di contabili per riuscire a tenere il passo con tutte le rendicontazioni e i pagamenti pretesi dallo Stato in generale e dal Fisco in particolare.
A confortare la presa d’atto di Tremonti sull’«oppressione» delle imprese italiane sono moltissimi dati che non lasciano margine per interpretazioni differenti: l’attivo ufficio studi della Cgia di Mestre ha infatti elaborato una ricerca della Banca Mondiale dove si quantificano in media in ben 285 ore l’anno – in pratica, oltre un mese di lavoro – i tempi necessari solo per realizzare fisicamente i pagamenti fiscali. Anche i dati di uno studio Mediobanca-Unioncamere resi noti ieri dipingono una realtà che per certi versi ha del miracoloso, dove la piccola impresa italiana, a fronte di oneri fiscali oltre il 10% più alti di quelli (già elevatissimi in rapporto alla media europea) sopportati dalla grande impresa, prevede incrementi significativi di fatturato e di produzione per il 2011, grazie alla capacità di adattamento e alla crescita delle esportazioni. Si può quindi capire che ad un imprenditore (che dal giorno della sentenza Thyssen vive anche il rischio di vedersi contestato il reato di omicidio in caso di incidenti sul lavoro) le parole del ministro dell’Economia nell’audizione di ieri alla Commissione Finanze, siano suonate come un balsamo.
Se sul principio siamo tutti d’accordo però ben diverso sarà il tradurre in pratica le buone intenzioni: il giro di vite sui controlli fiscali infatti non arriva dallo spazio ma si tratta di una stretta voluta dallo stesso ministero e dall’Agenzia delle Entrate per contrastare la solita piaga dell’evasione. Sempre per «efficientare» gli incassi si potrebbe ricordare la ritenuta del 10% come anticipo di imposta applicata dalle banche alle imprese sui bonifici per le opere oggetto di detrazione: non si tratta di una tassa ma giocare con gli anticipi fiscali non contribuisce certo a semplificare il quadro (senza contare che la trattenuta è immediata e il rimborso è futuro).
Insomma, non si vuol certo mollare la presa su sicurezza, evasione ed incassi, tuttavia degli sforzi per mettere buonsenso nelle norme, magari evitando duecento pagine di regole antistress o gli accertamenti, le sanzioni e gli adempimenti relativi a cifre minime rispetto al fatturato e all’utile di una società, sarebbero sicuramente un buon passo avanti per il sostegno della nostra impresa.posta@claudioborghi.com