Il pamphlet del filosofo inglese che mette in guardia dalle false speranze

di Roger Scruton

Il Contratto sociale di Rousseau proclama splendidamente che l’uomo è nato libero, ma si ritrova ovunque in catene. Se Rousseau fosse un ottimista è oggetto di disputa fra gli studiosi; se credesse davvero in ciò che scriveva rimarrà per sempre incerto; e non sarà mai stabilito nemmeno se la sua pretesa di onestà nelle Confessioni sia solamente un esempio di eccessiva rivendicazione.
Il Contratto sociale finisce comunque con il giustificare quelle catene delle quali si lamenta all’inizio, e in seguito la sua appassionata difesa della libertà fu usata per scusare la tirannia dei rivoluzionari. Eppure, una cosa è chiara: fu Rousseau a fornire il linguaggio, le linee di pensiero con le quali introdurre una nuova concezione della libertà umana, secondo la quale la libertà è ciò che rimane quando gettiamo via tutte le istituzioni, tutti i limiti, tutte le norme e tutte le gerarchie \. Poco tempo dopo, Robespierre istituì quello che chiamò «dispotismo della libertà», tagliando ogni testa che avesse qualche problema a riguardo. Il tributo di sangue finale, secondo lo storico francese René Sédillot, fu di due milioni di vittime, con un’Europa al contempo immersa in guerre di portata continentale che avrebbero distrutto le speranze delle persone più assennate. Ora, non voglio sostenere che la Rivoluzione francese sia stata causata da un’idea fallace. Significherebbe semplificare questo grande evento ben oltre il ridicolo. Ma l’acquiescenza dimostrata dai rivoluzionari nella strage da loro stessi causata fu di certo resa più semplice dal facile ottimismo della loro filosofia.
E questa filosofia non subì la benché minima battuta d’arresto nonostante l’evidente confutazione dei fatti, esemplificando così l’incredibile caratteristica degli ottimisti senza scrupoli: la capacità di credere all’impossibile davanti a qualsiasi prova del contrario. L’idea stessa di libertà, come condizione naturale dell’umanità, che richiede solamente l’eliminazione di istituzioni, strutture e gerarchie, è sopravvissuta nella politica, nell’istruzione e nella filosofia dell’arte fino a oggi. E ha sorretto la rivoluzione sessuale, la rivoluzione nel campo dell’istruzione e le agitazioni sociali del 1968 \. Quella stessa fallacia può essere ritrovata nelle successive esortazioni alla rivoluzione dei marxisti, di Lenin e Mao, di Sartre e Pol Pot, per i quali la Rivoluzione francese era stata un primo passo nella via dell’emancipazione \.
Quando i rivoluzionari francesi crearono il loro famoso slogan, «Libertà, Uguaglianza, Fraternità», si trovavano in una condizione di esaltazione utopica che impediva loro di scorgervi dei difetti. Ai loro occhi la libertà era buona cosa, l’uguaglianza era buona cosa, e la fraternità era buona cosa, così che la loro combinazione era tre volte buona. Ma questo è come dire che l’aragosta è buona, la cioccolata è buona, il ketchup è buono, e quindi l’aragosta cucinata nella cioccolata e nel ketchup è tre volte buona. Certo, la cucina americana esemplifica questo tipo di errore di ragionamento in modi che non cessano mai di inorridire il raffinato palato europeo. Ma nella sfera politica gli errori hanno conseguenze molto peggiori di quelle che possiamo trovare in un piatto americano.

IMMIGRAZIONE DI MASSA
A partire dagli anni Sessanta i Paesi occidentali hanno adottato delle politiche in materia di immigrazione che nessuna persona che conosca le verità elementari del pessimismo avrebbe mai approvato \ La risposta ottimista ai problemi posti dall’immigrazione di massa fu la politica del multiculturalismo. Ogni cultura, sostenevano i suoi fautori, è di per sé un bene. Ognuna ha qualcosa da offrire, che siano le gioiose feste indù, i carnevali degli indiani occidentali, le coese famiglie musulmane, la silenziosa laboriosità dei cinesi. Ogni cultura deve avere il massimo spazio per crescere e realizzarsi, per dare ai suoi membri i frutti della cooperazione sociale, e per godere dell’appoggio di un sistema educativo che si trattiene dal dettare ciò che può essere pensato, fatto o detto, ma piuttosto attende una guida dalle famiglie stesse che ne usufruiscono.
Per offrire spazio alle minoranze culturali, però, la cultura di maggioranza deve essere marginalizzata.

Non le si può più consentire di dettare la forma e il contenuto dei programmi scolastici, e qualsiasi accenno al fatto che il luogo in cui stiamo debba avere precedenza sul luogo dal quale siamo venuti deve essere attentamente estirpato dal programma di studi. La fallacia, qui, è clamorosa.

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