da Milano
Daccordo, lui mica voleva scrivere il romanzo della vita. Voleva solo, così dice, «pubblicare il libro che avrei voluto leggere io». Quando Giorgio Panariello parla di Non ti lascerò mai solo (Mondadori, 132 pagg, euro 16) sembra così intimidito che la prima cosa che gli viene da dire è: «Tranquilli, non sono uno scrittore e questo non è linizio di una carriera alla Giorgio Faletti». Si schermisce, parla quasi sottovoce, ammette che «è difficile far dimenticare il Panariello del sabato sera». Poi lentamente si appassiona ed ecco che salta fuori la trama del suo romanzo, una storia paradigmatica, una sorta di menage à trois tra lei, lui e il cane che scorre via liscia, scritta in modo chiaro e volutamente elementare, qualche volta semplicistica ma, diciamolo, efficace. Nella vita di Francesco, «che assomiglia molto a come ero io fino a qualche anno fa», ci sono le tracce di molti personaggi di Panariello, la loro ostentata e drammatica superficialità, il desiderio di spazzar via tutti i pensieri sotto il tappeto dellapparenza ludica e fine a se stessa. Bon vivant, ma bon vivant sterile, senza un briciolo di fascino. Quando nella sua vita entra la fidanzata Mia e subito dopo il cucciolo Poldo, il castello si sbriciola neanche tanto lentamente e neppure larma dellindifferenza, la preferita dai vitelloni di provincia, riesce a metterci un rimedio. Francesco è obbligato a crescere e lo fa come capita ai ragazzini, senza accorgersene. Finché è obbligato a farlo, e se ne accorge inesorabilmente. «Tutto ruota intorno a Poldo, prima detestato e poi amato, dolcemente amato. Daltronde i cani sono così e chi non li ha non può capire come ti cambiano la vita dal di dentro». Giorgio Panariello è un amante dei cani: «Quando presi Zeus, il mio pastore tedesco, ho iniziato a dare un peso diverso a molte cose».
E perciò questo romanzo esce proprio ora, mentre Del mio meglio live, il suo tour teatrale, fa il tutto esaurito dappertutto e raccoglie fondi per «La squadra degli animali» che ha come obiettivo la creazione di «un numero unico nazionale per gli animali»: «Avrei potuto pubblicarlo tra un anno, ma forse è stato più giusto farlo uscire adesso, come per chiudere il mio ciclo di impegno sotto questo profilo». E senza dubbio Panariello si prepara a diventare altro. È cresciuto, è diventato famoso, ha presentato Sanremo, è stato persino nominato simbolo della «tv deficiente» dalla moglie di un presidente della Repubblica, soffrendone assai. Ora, e lo si capisce anche dalla levità disillusa con la quale presenta ormai le sue imitazioni, è il momento di cambiare. E difatti. «Ho finito con i miei personaggi. Adesso mi fermo e ne invento di nuovi: bisogna trovare gli spunti e poi elaborarli. La tv? Per ora non torno, ci vuole tempo».
Immediato come pretendeva lavanspettacolo e conosciuto come pochi altri comici, Panariello razzola nella quotidianità e tiene la barra dritta verso il popolare, non si discosta da ciò che tutti conoscono e non ha il vezzo, magari pure arrogante, del capopopolo con fregole politiche. Fa ridere e basta, e tra le pieghe del sorriso può tuttal più lasciare entrare qualche riflessione. Un comico vecchio stampo. E la tv è vecchia? «La Rai sta facendo un lavoro su ciò che le appartiene di più: il varietà. Certo, metterlo quattro volte alla settimana è un po troppo, io lo lascerei solo al sabato sera». Intanto lui, che replica a Christian De Sica infilandosi senza dubbio tra i comici «non scopanti» a differenza ad esempio di Pieraccioni che è «scopante», sta per girare il remake dei Mostri per la regia di Enrico Oldoini: «Ehi, cè un cast importante, cè Bisio e pure la Ferilli con Abatantuono».
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