Gian Micalessin
Sul ponte sandali. Migliaia di sandali. Un tappeto di sandali. Negli ospedali cadaveri. Dentro e fuori. Centinaia di cadaveri. Tappeti di cadaveri. Ovunque l'urlo dei sopravvissuti. I lamenti dei feriti. Il pianto delle madri, le maledizioni dei padri, le urla della folla. Là sotto il fiume Tigri, brulicare di teste, fango e morte. Agosto, la stagione crudele degli sciiti è arrivata. Due anni fa a Najaf unautobomba per l'ayatollah Mohammed Baqir al-Hakim e un'ottantina di fedeli. Questa volta è peggio. Peggio anche delle battaglie di Karbala e Najaf e delle centinaia di vittime di un anno fa. Quest'anno i morti di fine agosto saranno molti di più. Sono più di ottocento a tarda sera sotto le coperte, i teli di nylon slambricciato, le mosche, le mani e il pianto dei parenti. Sono un po' ovunque. Sull'argine, sul ponte lordo di sangue e dolore, nelle corsie del pronto soccorso, nel parcheggio davanti. Saranno ancora di più quando la broda fangosa del Tigri sputerà sugli argini altre carni gonfie e straziate. Forse più di mille. La tragedia più funesta di un funesto e interminabile dopoguerra.
Erano un milione ieri mattina. Incolonnati come vitelli da mattatoio su una sponda e l'altra del Tigri limaccioso. Al Aadhamiya a est, Al Kadhimiya e la cupola dorata a ovest. Una kappa e qualche vocale a far la differenza per due mondi a parte, su un versante e l'altro del fiume. Al Aadhamya, la roccaforte dell'insurrezione sunnita, il quartiere dei quadri intermedi del Baath, un intreccio di case e viali dove gli americani entrano solo scortati da elicotteri e carri armati. Al Kadhimiya, il cuore storico della Bagdad sciita sotto lo scintillio dorato del sacrario di Mussa Kazim. L'imam morì dodici secoli fa. Da allora ogni agosto pellegrini assetati e sudati riempiono il ponte dei «due imam». La cupola risplende, là, in fondo, oltre i trecento metri sospesi sul Tigri. Il ponte di A'aimma, il ponte dei due imam, l'ultimo finalmente per chi ha attraversato tutto l'Irak. Ieri è come sempre. Ma tra le due corsie ci sono quelle barriere di cemento. Davanti, in mezzo e alla fine del ponte. Ovunque possa colpire un autobomba. Ovunque ci sia bisogno di fermare un attacco armato. Alle prime luci del giorno sono già sepolte dalla folla. Un formicolio nero di donne in chador, tuniche, sandali e keffie sospeso sull'ocra del Tigri. Qualcuno ad Al Aadhamya li attende. Il mortaio inquadra la moschea dorata, i primi pellegrini in arrivo. Quattro, cinque, sei esplosioni. Urla, sangue, sei morti sul terreno, dozzine di feriti attorno. Poi gli elicotteri Usa nel cielo, i razzi, il mortaio centrato, sei terroristi carbonizzati in fragranza di reato. È la prima, piccola tragedia della giornata. L'innesco della catastrofe. Il ponte riapre, la ressa nervosa riprende a scorrere sul Tigri limaccioso. Il fiume scivola lento. La folla sussulta, freme, trascina presentimenti e paure d'orrore imminente. Poi tutto in un solo urlo. L'innesco d'una catastrofe umana. «Cè un attentatore suicida, è fra noi, sta per esplodere Allah proteggici, scappiamo, scappiamo».
Gli uomini del governo giurano fosse tutto preparato. «È stato un terrorista a dar il via alle voci, ha puntato il dito su un uomo, ha detto che aveva una bomba», racconta alle telecamere il ministro degli Interni Bayan Baker. «Sono stati i fedelissimi di Saddam assieme a quelli di Zarqawi a seminare il panico», assicura facendo di tutta l'erba un fascio il consigliere per la sicurezza nazionale Muwaffaq al-Rubaie. «Sono stati i colpi di mortaio sparati dagli uomini di Zarqawi a innescare il disastro», assicura accorciando tempi e fasi della catastrofe il presidente iracheno Jalal Talabani.
Di certo quel primo urlo, disordinato o premeditato, è l'inizio del terremoto. Il primo sandalo dinanzi a lui fa un passo a ritroso, investe il pellegrino dietro di sé. Così testa dopo testa, per dieci, mille, centomila teste. Alla fine del ponte quel primo spintone decuplicato è un'onda, un sisma, uno tsunami sul formicaio disperato. Diecimila, centomila sandali a correre su teste e gambe, a calpestare mani e schiene. Il sangue dei corpi schiacciati disegna le barriere di cemento. Bimbi e donne spiaccicati strisciano con le ultime forze tra gambe e piedi in fuga, si ripiegano come fiori recisi, precipitano dalle spallette, si spengono in uno spruzzo di fango. «Quando è esploso il panico donne e bambini sono stati schiacciati dagli uomini in fuga», racconta Abdul Walid dal suo letto d'ospedale. Lui suo figlio l'aveva in spalla. «Poi è caduto, sono caduto anch'io ed è scomparso, non l'ho più visto... intanto io soffocavo e strisciavo...
Panico tra i pellegrini, mille morti a Bagdad
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