Pansa: "Lascio l’Espresso perché voglio restare un bastiancontrario"

Il giornalista passa al "Riformista" dopo 31 anni nel gruppo Repubblica. "Spero che tireremo qualche sassata nelle vetrine dell'informazione. I soldi? Non l'ho fatto per quello, guadagno già un sacco con i libri"

Pansa: "Lascio l’Espresso  
perché voglio restare  
un bastiancontrario"

Roma - «Spero che tireremo qualche sassata nelle vetrine dell’informazione». Oddìo. Giampaolo Pansa lascia L’Espresso, e basta aggiungere che sta nel gruppo da 31 anni, per capire che è una notizia. Se ne va a Il Riformista di Antonio Polito (notizia anche questa, come passare dalla squadra di Golia a Davide). Per di più si diverte a spiegare che per lui il giornalismo «è un mestiere per bastiancontrari». Subito dopo aggiunge «un giornale piccolo è meglio di un giornale grande».

Pansa, te ne vai lasciando l’Espresso con il Bestiario, ma senza il suo autore?

(Risata pansiana, ah, ah, ah) «Veramente mi porto via anche il Bestiario. È un copyright mio, credo che a un vecchio signore come me consentiranno questo trasloco».

Non so come chiedertelo: ti hanno coperto d’oro?

«Noooòòòh... Ma che oro e oro! Faccio già un sacco di soldi con i miei libri, figurarsi se mi arricchisco col giornale».

Niente trattativa da calciomercato, dunque?

«Polito, e gli Angelucci, mi hanno dato quel che mi spettava. Sono un signore anziano che possiede una Panda».

Hai quello del giornalismo.

«Il che comporta che leggo e taglio dodici quotidiani tutte le mattine. Ma non è molto dispendioso».

È più grande l’archivio Pansa o quello Ceccarelli?

«Forse il suo. Il mio occupa due stanze. Sai come ho iniziato?».

Racconta.
«Vedevo Vittorio Gorresio, più matto di me, che catalogava persino gli auguri di Natale. Allora chiesi “A che ti serve?”».

E lui?
«Risposta sublime. Immagina il tipo. Capelli all’Umberto, erre arrotata: “Taglia tutto, a partire dai tuoi articoli. Quando li dimentichi anche tu è il momento migliore per passare dalla copiatura degli altri a quella dei propri”».

Mica male come scuola di giornalismo...
«Ma sì! Basta con la retorica autocelebrativa».

Quanto serve tagliare?

«Molto: per esempio ho una busta anche su di te. Ma ti racconto del mio primo pezzo»

Questo lo so. A La Stampa, con il mitico Gidibì, la recensione di Quell’ultimo ponte di Cornelius Ryan!

«Allora saprai anche che fine fece. Rimase tre giorni in ghiacchiaia, finché non ebbi la malaugurata idea di chiedere che fine avesse fatto».

Chi ti rispose?

«Il direttore. Lo prese, lo strappò, urlò: “Più che una recensione, è una pessima cronaca. Fatta, per giunta, da uno che a giudicare dall’anagrafe non c’era!”».

Mamma mia.

«Provai dolore fisico».

Non dire che vai a Il Riformista perché ami cambiare.
«Invece è così: compio proprio oggi la bellezza di 73 anni, mi diverto. È l’ottavo giornale in cui entro, si vede che sono zingaresco. Forse sono il più grande cambiagiornali».

Un giudizio che ti ha inorgoglito?
«Ah, ah, ah... D’Alema».

D’Alema ti ha fatto un complimento?
«Disse a Claudio Rinaldi: “Pansa si fa leggere dalla prima all’ultima riga. Ma non capisce un cazzo di politica. Peggio di lui solo Prodi”».

Una bella frecciata.
«Ma no, una medaglia».

D’Alema però si rivolse da una tribuna congressuale al tuo binocolo, e venne pure a stringerti la mano...
«Ah, il binocolo. È Zeiss, made in Ddr. Ha iniziato la carriera quando ero al Corriere, nel congresso Dc in cui inventai le “truppe mastellate”».

Il binocolo ha un segreto?
«Il primo è semplice. Ti mette cento metri davanti ai colleghi. Se vedi la faccia di De Mita dopo cinque ore di relazione puoi capire tutto di lui».

Il secondo?

«Quando sei lì che scruti, c’è sempre una collega affascinante che ti chiede: “Oh, Pansa! Me lo presti?”».

E tu?
«Rispondo: Manco morto».

Però, galante...
«Sai: io lo presto a lei, lei lo presta a un altro, e poi non lo rivedo più. È un binocolo da caccia. E in fondo io sono passato dalla caccia delle prede a quella delle facce».

Come si fa a intervistare il comandante Borghese tre giorni prima del suo golpe?
«Culo. Ma io mi sono convinto proprio con quell’intervista che il golpe era una panzana. Ti pare che uno prima di occupare il Quirinale fa chiacchiere davanti al registratore del “nemico“ Pansa?».

Come vi congedaste?

(Nuovo ghigno). «Bel dialogo. Lui mi chiese: “Scriverà un articolo obiettivo?” E io: “No”. Si riprese bene. “Mi ha dato una risposta onesta”».

E tu intanto portavi a casa uno scoop.

«Mah, gli scoop... il vecchio Di Bella, che fu un grandissimo capocronista diceva: “Non far mai comunella con gli altri. È meglio prendere un buco, che perdere un punto di vista originale sulle cose”».

Attribuisci il merito del tuo reportage sul Vajont a un paio di calosce!
«Era il ’63. Gidibì mi mise sulla macchina con un inviato blasonato, Francesco Rosso. Che dormì tranquillamente, e poi si infilò con tutti gli altri inviati blasonati all’Hotel Cappello di Belluno».

E tu?
«Io avevo avuto l’idea di prendere gli scarponi. Così mi arrampicai sulla montagna, 9 chilometri a piedi andare e a tornare».

Sulla strada incontrasti la squadra de Il Giorno.
«C’era Bocca... e Guido Nozzoli, che chiese: “Hai fatto la guerra?” Io: “No”. Lui: “Allora preparati. La troverai qui”».

Che ti resta di quel pezzo?

«Una puzza indescrivibile: fango, sterpaglie e sangue. Ma quando alla sera i giornalisti blasonati videro le riprese Rai dagli elicotteri, i loro pezzi invecchiarono in un minuto».

La decisione più drammatica che hai preso?

«Con Scalfari. Quando dicemmo di no alla moglie di un sequestrato dalle Br che ci implorava di pubblicare i comunicati brigatisti».

Come capisci se è giusto?

«Solo dopo trent’anni. Se non te ne sei pentito. Ma se avessimo pubblicato i testi dei brigatisti lo Stato chiudeva».

Ti senti un maestro?

«Macchè! A Il Messaggero mi fecero caporedattore. E io nella macchina ero proprio un disastro, non sapevo disegnare un menabò».

Non ci credo.
«Oh sì! Mi salvava il vecchio Terracina, padre di Claudia, che senza dir nulla mi ridisegnava le pagine. Un santo».

Poi te ne andasti.
«Divenne co-editore, Edilio Rusconi. E io, come molti altri di sinistra, lo consideravo, pensa, un clerico fascista!».

Ammetti almeno il fiuto.
«Vabbè, ma suffragando con un anedotto sapido su di un neodirettore...».

Sono tutt’orecchi.
«Mi misero, non so perché, nella giuria della borsa Formenton. Il premio era due stage di sei mesi in un quotidiano del gruppo Caracciolo, e uno uguale a La Repubblica».

E cosa c’entra?
«Gli articoli erano anonimi. Mi piaceva molto uno. Scritto in modo originale e moderno. Stupiva. Dissi: “premiamolo”. Ci fu discussione».

E poi?
«Dissi: “vedrete, è una donna. Dopo la scelta aprimmo la busta. era Concita De Gregorio, oggi direttora».



Sai persino cosa rispondere ai giovani che ti chiedono come si diventa giornalisti?
«Sì. Scordatevi le passeggiate che è durissima. E poi leggetevi dieci libri e fate il riassunto in dieci righe».

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