Paolo Stoppa, il grande teatrante che collezionava donne e scarpe

Enrico Groppali

Ma davvero Paolo Stoppa domani non compie, ma ahimè solo compirebbe cent’anni? Persino in questo fatidico 2006, a quasi vent’anni di distanza da quel tristissimo 1988 che ci ha privato di quegli occhi levantini accesi di un fuoco inestinguibile, la sua presenza è un dato di fatto del teatro italiano. Infatti ogni volta che uno dei suoi seguaci si cimenta con Shylock o addenta la mela bacata dell’Avaro scorrono fiumi d’inchiostro su questi ed altri ruoli che furono, si direbbe, sindacalmente suoi. Al punto che chi ha avuto la fortuna di scorgerne in controluce il corpo tozzo e massiccio che a tratti, con uno scatto perentorio, spalancava sulla platea uno sguardo più acuminato di un coltello, commentato da quella voce aspra che ti penetrava sottocute come uno spillo, lo rivede con gli occhi della memoria come se si fosse appena allontanato, per vezzo o per risentimento, dalle luci della ribalta.
Ma chi era questo «romano de Roma» che lunedì sarà commemorato alla prima tornata dei Premi Olimpici e che a vent’anni interpretò Barberina accanto alla coetanea Anna Magnani? Due, e due soli, sono gli incontestabili dati che gli vengono attribuiti: l’innata eleganza che lo spinse a collezionare più calzature di Evita Perón e l’innata propensione per il gentil sesso. Ma... e l’arte? È vero che, agli inizi, certi eccessi gli furono rimproverati? Sembra incredibile, ma accadde proprio così. Perché Paolo che, da giovane, prediligeva il disegno a tutto tondo di personaggi farseschi quando si confrontava con l’estro lunare di Dina Galli o con la bonomia, spruzzata di caustico livore, del bolognese Gino Cervi, diveniva vittima volontaria del grottesco, allungando fino all’inverosimile le braccia fino a dar l’impressione di crescere più e meglio del naso spropositato di Pinocchio. Ma ciò che poteva rivelarsi un handicap fu presto corretto dalla determinazione dell’intellettuale di razza. Il quale si censurò a un punto tale che quando, poco più che trentenne, diede vita alla Compagnia del Teatro Eliseo impressionò tutti quanti con una straordinaria performance delle Allegre comari dove a bella posta si impose non come Falstaff ma come Ford, il supposto cornuto divorato come Otello dalle smanie della gelosia.
Ma fu nel clima esagitato e febbrile del dopoguerra che il talento di Stoppa esplose preponderante e, da quel momento, lo proiettò per sempre nell’Olimpo dei «poeti laureati» delle nostre scene. Grazie a un artefice irascibile quanto irresistibile di nome Luchino Visconti, Stoppa si trasformò fino ad alterare, in un processo che ebbe del miracoloso, i suoi inconfondibili tratti. Dato che nella compagnia dell’Eliseo, l’attore fu dapprima il vile Garcin responsabile, nella memorabile prima di A porte chiuse di Sartre, del suicidio della moglie e, nel ’46, quel memorabile Raskolnikov di Delitto e castigo, che fissa allucinato il vuoto muovendo in un tic derisorio le mani mentre le pupille, che sembrano cieche, sono volte all’abisso senza scampo dell’inconscio. Stoppa più Morelli diventano, da quel momento, specchio delle lacerazioni del nostro tempo, garanzia di una qualità e di un impegno che gli anni arricchiscono di sottili impercettibili vibrazioni.
Grazie a Visconti, il mirabile duetto tra l’estenuata dolcezza di Rina e le brusche impennate di Paolo si muta in un colloquio fremente tra la soavità di un’attrice capace di restituire a Cechov il trasognato lirismo della lirica pura e la scabra asperità dell’uomo dei tempi nuovi. Quelli difficili del vitalismo ribelle a qualsiasi costrizione dove il gusto estetico d’oltre Atlantico porta in Italia l’Arthur Miller fragile e disperato di Morte di un commesso viaggiatore sposandolo ai morbosi trasalimenti di un ragazzo del Sud di nome Tennessee Williams. Dove Stoppa, che ha appena tratteggiato nel Willy Loman del Commesso il piccolo borghese schiacciato dalle illusioni del New Deal si trasforma a vista, in Zoo di vetro, in quel Tom che, per sfuggire agli insidiosi spettri del passato, si imbarca come un eroe di O’Neill sulla nave dei sogni,tra i frangenti del mare.
Ed eccolo ancora, nelle vesti di Paragone, incarnare la filosofia di Shakespeare in quella Rosalinda con le scene di Salvador Dalì che provoca il grido d’ammirazione di Cocteau, eccolo a Parigi suscitare l’entusiasmo di Gloria Swanson che, incantata dal suo Forlimpopoli nella Locandiera, lo vorrebbe accanto a sé a Broadway, eccolo indossare la canottiera sporca d’odio e di fuliggine di Eddie Carbone ucciso nella Little Italy di Uno sguardo dal ponte, eccolo infine al culmine della sua arte tratteggiare in controluce addirittura Shaw aggredendo con burbera fierezza Eliza Doolittle, la piccola fioraia di Pigmalione. Naturalmente affidata a Rina che, in candida veste da educanda, gli tende sospirando una rosa.

E il cinema? E la televisione? Come si comportano con un attore come lui? Tanto dotato da apparire inclassificabile non fosse per il Mark Twain umanissimo e dolente che entra nel ’65 nelle case degli italiani e per l’untuoso Sedara del Gattopardo, tessitore di un intrigo di casta e di casato che condurrà l’Angelica di Claudia Cardinale tra le braccia di Delon. Buon compleanno, caro Stoppa, amatissimo tra le ombre.

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