Cultura e Spettacoli

Il papà di Jim Morrison: "Mio figlio non era un grande cantante"

L'ammiraglio padre del rocker svela i loro rapporti difficili in un libro: "Non credo che sarebbe mai stato come Caruso. Ma lui era più di una semplice voce"

Il papà di Jim Morrison: "Mio figlio non era   un grande cantante"

Milano - «Jim mi chiamò e mi disse che stava per partire con una rock band. Gli dissi che era ridicolo: “Non sei un cantante. Non sai cantare”. Non l’aveva mai fatto». Questi genitori, una franchezza che trancia i sogni. «Quando andavamo in macchina da un capo all’altro del Paese a tutti noi piaceva cantare, ma era solo un passatempo. Non credo che nessuno di noi avesse la voce giusta. Gli dissi: “Sei sul binario sbagliato. Trovati un lavoro, fare il cantante non è un lavoro vero”». Dopo quella conversazione, l’ammiraglio George Stephen Morrison (che allora, nel ’65, era a Londra nello staff del comandante in capo delle Operazioni navali in Europa) e suo figlio Jim non si sentirono mai più. Dopo sei anni, il 3 luglio del 1971, Jim Morrison, la più grande icona del rock, morì a Parigi e proprio quel giorno suo padre, che non ne sapeva nulla perché la notizia fu diffusa quasi una settimana dopo, prendeva possesso a Washington della sua prima nave. Destino, maledetto destino. «Fummo informati dall’addetto della Marina... L’ambasciata di Parigi mi mandò un messaggio che diceva che Jim era morto per un infarto. Ci avrebbero inviato il certificato di morte. Fu un colpo tremendo». Oggi George Morrison ha 87 anni e vive a Coronado, nella parte tranquilla della California, lontana anni luce dalla Los Angeles del «Whisky à gogo», dell’esaltazione rock, dei ricordi di quello che fu suo figlio quando con le braghe di pelle, i riccioli neri e la barba mai fatta continuava a ripetere che «esistono il noto e l’ignoto e in mezzo ci sono le porte».

Ossia i Doors, il gruppo che ha trasportato l’America dal rock’n’roll al rock e basta, quello fatto di visioni e illusioni che avevano bisogno di un guru, di uno sciamano pronto a raccontarle. Jim Morrison diventò quella cosa lì, magari non lo voleva neppure e comunque è quasi inutile dire che cosa rappresenti oggi, a quarant’anni dal primo disco dei Doors, mentre i ragazzini ascoltano ancora le sue canzoni e comprano le magliette con il suo volto stampato sopra. Light my fire, ricordate?, accendete la mia fiamma, e in quel famoso giro di tastiere c’è un’intera epoca. «Non avevo idea di quanto fosse famoso, e non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa», confessa oggi suo padre nel bel libro che la Sperling & Kupfer manda in libreria domani, The Doors by the Doors. D’accordo, nelle 230 pagine (al prezzo di 19 euro) ci sono gli altri della band che tutti insieme si raccontano e qui e là distillano novità (a proposito, lo sapevate che Oliver Stone aveva mandato una sceneggiatura a Jim Morrison in persona?). Ma soprattutto c’è l’ammiraglio George che parla per la prima volta e lo fa adesso che il tempo ha spazzato via tutti gli orpelli lasciando solo il ricordo puro, intimo. «Non credo che sarebbe mai stato un Caruso - dice - né che sarebbe diventato particolarmente famoso per la sua voce. Ma lui era di più. Lo ricordiamo con grande piacere: a parte la sua carriera, noi lo conoscevamo come ragazzo ed era davvero adorabile. La sua morte è stata una tragedia, ma quando ne ripercorriamo la vita, il ricordo che conserviamo è davvero piacevole»

E quanta dolcezza c’è in quest’uomo di mare e di armi, un vecchio conservatore tutto d’un pezzo che a 87 anni confessa che «mi hanno detto che Jim era una star internazionale. È stato bello rendersene conto. Avrei dovuto accorgermene prima». Mentre lui, che è stato il più giovane ammiraglio della storia americana, sua moglie Clara e gli altri suoi figli Anne e Andrew vivevano la loro vita, Jim Morrison lasciava lentamente la sua, demolendosi con le droghe e soprattutto l’alcol. Quando in primavera arrivò a Parigi con la sua fidanzata Pamela Courson, già massacrato da una tosse asmatica che gli faceva vomitare sangue, era un fantasma che provava a ritrovarsi senza riuscirci. Una sera, disse il suo amico Gilles Yepremian, bevve fino a perdere conoscenza e la mattina dopo trangugiò un Bloody Mary per poi saltare il pranzo e sostituirlo con scotch e cognac. «Non ne posso più, sarei così felice se nessuno mi riconoscesse». In una delle sue ultime lettere, riportate dal libro, scrisse: «Finalmente oggi è tornato il bel tempo (...). Parigi è una città bellissima con il sole, è una città eccitante, costruita per l’uomo». La settimana dopo, alle 4 del mattino, Pamela lo trovò senza vita nella vasca da bagno e dal suo racconto incerto sgorgarono decine di voci contrastanti: è morto, non è morto, perché è morto? Una trombosi dovuta ad abuso fisico, confermò il suo manager. Roba del passato e, tutto sommato, inutile.

L’annuncio fu dato solo sei giorni dopo per evitare le speculazioni di stampa che si scatenarono per la morte di Janis Joplin nell’ottobre dell’anno prima. «Fui colpito dal fatto che mio figlio - dice il padre - andasse in quel grande cimitero di Parigi, il Père Lachaise. Pensai che fosse un onore per lui e per la nostra famiglia che riposasse fianco a fianco con le più grandi personalità della letteratura del secolo scorso». E all’ambasciata americana di Parigi fu registrato che era morto «James Morrison, poeta».

E basta, semplicemente così.

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