LA PARABOLA DI UNO SCOMODO PROFETA

LA PARABOLA DI UNO SCOMODO PROFETA

Questa è in assoluto la prima intervista concessa da don Luigi Maria Verzé. Fu pubblicata il 13 giugno 1993.

di Stefano Lorenzetto

Quattro mesi di attesa. La prima richiesta l’ha voluta per fax, il 26 gennaio. Alla fine ha ceduto: «Venga, ma guardi che non potrò dedicarle più di un’ora». È stato prodigo: abbiamo chiacchierato per quasi tre.
Di solito don Luigi Maria Verzé non parla con i giornalisti. Questa è la prima intervista che concede in vita sua. Ha 73 anni compiuti, è sacerdote dal 1948. È nato a Illasi (Verona), ma lo conoscono nei cinque continenti come fondatore e presidente dell’ospedale San Raffaele di Milano. Forse l’unico al mondo che riserva ai mutuati stanze da due letti, o al massimo da tre, con bagno in camera, aria condizionata e tv. Non ci sono stanzoni, al San Raffaele. I ricoverati non pagano una lira: esibiscono soltanto la tessera sanitaria dell’Ulss. Primari di fama internazionale fanno a gara per lavorare qui. Un miracolo di efficienza che dura da vent’anni, duplicato a Olbia, in Sardegna, e a Roma. E poi alla Valletta (Malta), a Salvador de Bahia (Brasile), a New Delhi (India) e, presto, in Polonia, Russia, Algeria, Cile, Filippine.
L’ufficio del presidente è a pianterreno, appena entrati. All’ingresso una scritta: «Tutto è possibile a chi crede». Nel muro c’è incastonata la prima pietra. L’hanno scalpellata via dal monte Tabor di Illasi. Sulla scrivania tiene un crocifisso d’argento massiccio. «Me lo donò il cardinale Schuster nel 1952», racconta, «dicendomi: “Ecco, questo lo metterai sul tavolo di lavoro quando avrai costruito il tuo ospedale”». Lo afferra, lo gira e mostra una foto ingiallita incollata sotto il basamento: Schuster, l’arcivescovo che trattò la resa di Benito Mussolini e salvò Milano dalle rappresaglie naziste, porge quello stesso crocifisso a Vittorio Emanuele III sulla soglia del Duomo. «Schuster aggiunse: “E ricordati che è l’unico crocifisso baciato dal re massone”», sorride don Verzé.
Alle pareti tre quadri di scuola lombarda del Settecento, molto belli. In un angolo una foto con dedica di monsignor Giuseppe Carraro, il compianto vescovo di Verona. Accanto, in cornice, una banconota da 500 lire. Gli fu consegnata da una malata del Cottolengo di Torino: «Tenga, padre, per il suo ospedale». La prima offerta. Adesso don Verzé s’è messo in testa di costruire un San Raffaele in Val d’Illasi. A sbarrargli il passo ha trovato un compaesano, il giurista Alberto Trabucchi, sindaco di Illasi. Non ne parla volentieri. Non lo incolpa di nulla. Alla fine qualcosa si lascia sfuggire: «Ha fatto urbanizzare la corte rurale in cui sono nato. Questo sì è stato un grande peccato di Trabucchi».
Personaggio discusso, don Luigi Maria Verzé. Sconta tanti pregiudizi, come tutti i grandi personaggi che creano qualcosa di importante. Magari non morirà in odore di santità. Ma di sanità senz’altro.
Quand’era piccolo che cosa sognava di fare da grande?
«Il mio proposito è sempre stato quello di scrivere una nuova pagina nella storia della medicina. Uno scienziato proprio ieri mi ha detto che ci sono riuscito. Bontà sua».
Si sente in debito verso qualcuno?
«Io debbo molto a tre persone scomparse: il cardinale Ildefonso Schuster, arcivescovo di Milano; il beato don Giovanni Calabria; monsignor Giuseppe Carraro, vescovo di Verona».
Mi parli di loro.
«Studiavo filosofia all’Università Cattolica. Da laico, non da prete. Conoscevo già don Calabria, veronese come me. Un giorno qualcuno mi suggerì di recarmi a salutare Schuster. Portai con me una foto del cardinale e lo pregai di metterci una sua dedica, perché volevo farne dono a don Calabria. Mi squadrò perplesso. “Questi santi, questi santi... Non ci credo”, sussurrò».
E poi?
«Andai da don Calabria ed ebbi l’ingenuità di raccontargli l’episodio. Lui disse: “Tra due anni il cardinale Schuster sarà qui”. Una previsione che si avverò. Posso testimoniarlo perché fui proprio io ad accompagnare il porporato. Ebbi la gioia di vedere questi due profeti inginocchiati uno di fronte all’altro nella stanza di don Calabria».
S’incontrarono altre volte?
«Sì. Intanto io mi laureai e diventai sacerdote. Una volta condussi il cardinale a vedere l’ospedale di Negrar dell’Opera don Calabria. Chiese che l’esperienza fosse ripetuta a Milano: “Occorre che anche nella mia diocesi si faccia un ospedale per i borghesi”».
Per i borghesi?
«Esatto, i borghesi. Vede, allora per il ceto medio non esisteva un’assistenza sanitaria qualificata. I grandi ospedali erano dei lazzaretti. Chi poteva permetterselo, sceglieva le cliniche private a pagamento, che erano gestite soprattutto da religiosi. E questo fatto, per il cardinale Schuster, rappresentava uno scandalo».
Ma perché fu scelto proprio lei?
«Misteriosi disegni della provvidenza. Il 12 ottobre 1950 don Calabria mi congedò con queste parole: “A Milano nascerà una grande opera che farà parlare di sé l’Europa intera. Va’, è il Signore che ti manda”. E io uscii dalla porta. Sennonché sulla soglia mi richiamò, estrasse dalla tasca 10.000 lire e mi disse: “Prendile, perché non voglio che tu domani possa dire che tuo padre ti ha mandato a Milano senza un soldo”».
Diecimila lire. Un po’ dura ricavarci un ospedale...
«Infatti all’inizio mi occupai d’altro. Il cardinale Schuster mi affidò un centro professionale di periferia. Cominciai con un ragazzo e me ne andai, nel 1958, che ne accoglieva 700. Figli di emigrati del Meridione. La schiuma di Milano. Senza lavoro, senza educazione, senza religione. Per lo più ladri».
Nel frattempo all’arcivescovo Schuster succedette il cardinale Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI.
«Al quale mi presentai nel 1959 per esporgli il progetto del San Raffaele: eminenza, non le pare una vergogna che noi cristiani assistiamo i malati a pagamento nelle case di cura private, discriminando i ricchi dai poveri? Mi rispose: “Questi peccati la Chiesa li dovrà pagare”».
Non le domandò come avrebbe trovato i fondi per costruire l’ospedale?
«Altroché. E io gli dissi: con la stessa fede che mi fa trasformare il pane nel corpo di Cristo. Se ogni mattina compio questo miracolo, vuole che non riesca a fare un miracolino chiamato San Raffaele?».
Sì, ma i soldi? Chi glieli diede?
«Scelsi l’area e andai dal proprietario, il conte Leonardo Bonzi. Gli chiesi 25.000 metri quadrati. Ci fu uno scambio di battute: “Eh, misericordia, che se ne fa, don Verzé, di tutta questa terra?”. Non si preoccupi e cominci a darmi 25.000 metri quadrati. “E i quattrini?”. Non ne ho. “Ah, ma allora lei ha i piedi freddi”. Detto in dialetto milanese. Mi dava dello spiantato. Ed era vero. Concluse: “Se mi porta 10 milioni, le faccio il preliminare”».
Invece lei aveva soltanto le famose 10.000 lire di don Calabria, per di più svalutate...
«Appunto. Però avevo fatto una certa cortesia alla contessa Bassetti. Che mi prestò i 10 milioni. E non li volle più di ritorno. Per dire che ho cominciato dal nulla. Del resto don Calabria mi ha insegnato che le opere di Dio nascono garantite se nascono come a Betlemme».
E oggi la provvidenza con che gambe cammina?
«L’intelligenza è la primaria divina provvidenza. Da ciò nasce la leggenda di don Verzé prete-manager».
Chi l’ha messa in giro? I suoi primi avversari sono stati i baroni universitari, gli Zanussi, i Maccacaro, i Malan.
«Vero. Ma non perché temessero che il San Raffaele diventasse ciò che poi è diventato. No, avevano soltanto paura che l’università, pubblica e laica, fosse introdotta in un ambiente permeato di costrizioni fideistico-cattoliche».
In seguito molti di loro hanno cambiato idea. Come li ha persuasi?
«Con lo stesso discorsetto che ho sempre fatto agli studenti: a me non interessa che recitiate ogni sera il rosario, ma che diventiate dei bravi medici; perché, se sarete uomini onesti e bravi medici, sarete “naturalmente cristiani”, come scriveva Tertulliano».
Le leggo alcune definizioni che la stampa le ha riservato negli ultimi anni: prete-padrone, Berlusconi di Dio, Ligresti della sanità. L’hanno accusata di eccessiva contiguità con il potere politico e di affarismo. Da dove nasce tanto astio?
«Dal primo di miei detrattori, il chirurgo Pietro Bucalossi, divenuto ministro repubblicano nel 1974. Dopo avermi sentito parlare del San Raffaele, prese per il bavero il sindaco di Milano, Virgilio Ferrari, e gli disse: “Tu questa delibera che concede a don Verzé un terreno del Comune non la devi far passare”. Ferrari chiese il motivo dell’ostilità. E Bucalossi gli rispose: “Se quel prete riuscisse a realizzare l’ospedale che mi ha descritto, verrebbero declassati tutti gli altri nostri ospedali”. E in questo è stato profeta. Diabolico profeta».
E i processi per abusi edilizi?
«Noi abbiamo una licenza edilizia, concessa dal Comune di Segrate, che dice: “Si autorizza la costruzione dell’ospedale”. Non precisa: uno, due o tre corpi di fabbrica. Il magistrato ha sentenziato, di conseguenza, che tutto ciò che occorre per far funzionare un ospedale, può essere fatto. Bisogna tener conto che siamo un ente privato non profit, cioè senza fini di lucro. Questa è una categoria che la legislazione italiana non ha ancora ben illuminato, ma nella pratica esiste. Inoltre il San Raffaele è tutto proiettato sul pubblico; ha soltanto letti convenzionati; è, per legge regionale, polo universitario della Statale di Milano; è istituto di ricerca riconosciuto dalla Cee. Più pubblico di così! Allora essere un’istituzione pubblica è un fatto di etichetta o di sostanza?».
Le leggo un ritrattino al curaro tratto da Panorama: «Don Verzé è un prete atipico, che viaggia su auto di lusso dotate di radiotelefono, che non veste abitualmente la tonaca e nemmeno il clergyman, che si attornia di segretarie tanto efficienti e poliglotte quanto di gradevole aspetto». Si riconosce?
«Devo proprio rispondere? Lasci che la gente si diverta un po’».
Lo stesso settimanale le ha dato un ottimo voto nella pagella della sanità italiana: 7,2. Lei che voto si darebbe?
«Io sono un grande scontento. Sono dominato dall’affanno di fare le cose sempre più perfette e di rispondere alle istanze della gente. E siccome queste istanze sono infinite...».
Forse è per questo che una volta si è definito «un sessantottino in agitazione permanente». Un prete sessantottino. Strano.
«I sessantottini volevano un mondo diverso e le loro aspirazioni erano più che giuste. Magari propugnate in modo sbagliato, ma giuste nella sostanza. Sono queste teste calde che hanno cambiato il mondo. Anch’io sono una testa calda».
Ma lei un primario ateo lo assumerebbe?
«Non conosco atei. Ritengo che nessuno sia ateo nonostante si dichiari tale».
Medicina e sacerdozio. Ne parla spesso nei suoi studi. Approfondiamo.
«È la nostra dottrina fondamentale. Da sempre l’uomo ha visto la medicina come esplicitazione del sacro. E da sempre l’ha collegata a un ministero sacerdotale. Per noi cristiani è un diritto-dovere. La vita di Gesù Cristo è computabile pressappoco così: metà predicazione, metà guarigioni. Andate, insegnate e guarite. Questo era il mandato di Nostro Signore. Io rimprovero a me stesso e al cristianesimo d’aver tenuto conto soltanto dei primi due comandamenti».
Le rinfacciano d’aver creato un ospedale dove vengono a farsi ricoverare soprattutto i potenti.
«Qui vengono tutti: cardinali, vescovi, politici, ma anche operai e pensionati. Nessuno paga, i letti sono dell’Ulss».
Sì, ma siete famosi per aver curato Bettino Craxi e Antonio Gava.
«Semplicemente due personaggi che hanno voluto far sapere d’essere stati al San Raffaele».
Vabbè, ma lei in che rapporti è con Craxi. Dicono idilliaci...
«Io lo stimo, Craxi. È un uomo deciso, con le idee molto chiare. Quando ha governato, ha governato bene, ha fatto progredire l’Italia. Ha commesso degli errori. Ma sono errori che hanno compiuto in tanti».
Lui di più, pare.
«Questo lo stabiliranno i giudici. Direi che la colpa è, più che dei singoli, del sistema. Se non teniamo presente questo concetto, non riusciremo mai a capire il fenomeno delle tangenti. Il cristiano non deve dimenticare che la misericordia viene prima della giustizia. Pietà, comprensione, amore, ecco la predica del cristiano vero. Non la giustizia. Lo scriva».
Restiamo nei dintorni. Lei un giorno ha detto: «Io rifiuto la contrapposizione fra Dio e denaro, perché il denaro è stato creato da Dio». Non era lo sterco del diavolo?
«Io non sono d’accordo di coltivare la povertà per la povertà. Sono d’accordo di coltivare la ricchezza per trarre fuori i poveri dalla loro miseria».
Lei compila il modello 740?
«No, sono nullatenente».
È vero che è molto amico di Fidel Castro?
«È vero. Simpatizziamo. Lui è un grande appassionato di medicina. Ha costruito a Cuba un’invidiabile piattaforma di ricerca biomedica. Le sue radici sono profondamente cristiane, anche se il contesto storico lo ha posto nella condizione di operare scelte drammatiche».
Ha altri amici don Verzé?
«Tutta la gente».
In che cosa consiste «il grande entusiasmo di Leonardo Mondadori» per lei?
«È un buon rapporto che ho con lui come con altri. Qui c’è la fila tutti i giorni».
Fa la fila anche Silvio Berlusconi? È vero che è fra i vostri azionisti?
«Ma no. Abbiamo soltanto curato suo padre».
Senta, don Verzé, lei crede di lavorare troppo e pregare poco o viceversa?
«Prego mentre lavoro. Io mi sento un magatell, come dicono a Milano. In veronese, s-cianco. Un gioco, una trottola. Uno strumento nelle mani di Dio. Quando mi chiamano “presidente”, mi viene da ridere. Il presidente è un Altro».
A proposito di cariche, perché nel vostro Consiglio d’amministrazione siede monsignor Tiziano Bonomi, cancelliere vescovile di Verona?
«Perché la nostra fondazione, Centro San Romanello del monte Tabor, fu canonicamente riconosciuta da monsignor Giuseppe Carraro, vescovo di Verona. La casa madre è a Illasi, sul monte Tabor».
Questo toponimo importato dalla Terra Santa chi l’ha scelto?
«Io. Avevo l’ambizione di trasfigurare la medicina. E il Tabor è il monte della Trasfigurazione di Gesù. In origine quello di Illasi si chiamava monte Caro. Nel 1962, mentre stavo sulla sommità della collina, arrivarono lì i geografi militari. Chiesero: “Come si chiama questa località?”. Risposi: monte Caro, ma adesso si chiama monte Tabor. E da allora è rimasto sulle carte topografiche».
Torna spesso a Illasi?
«Ci sono tornato quando un comitato locale, presieduto da Giorgio Piccoli, ci ha chiesto di costruirvi un San Raffaele. La mia risposta è stata chiara fin dall’inizio: bisogna mettere d’accordo la gente, l’Ulss e la Regione Veneto».
Ma non c’è un sogno dietro questo ospedale? È stato scritto che l’ordine di costruirlo gliel’ha impartito, in sogno, addirittura il Crocifisso...
«Questa è un’altra storia. Risale al 1961. Consapevoli che un ospedale è fatto di gente, non di mura, abbiamo deciso di costruire un istituto per la formazione del nostro personale. E abbiamo cominciato a girare l’Italia in cerca del luogo. Pernottando a Trento, ho sognato il miracoloso Crocifisso del 1300 custodito nel piccolo santuario di San Felice sul monte Tabor. Allora la mattina dopo ho detto ai miei compagni di viaggio: “Né Lucca, né Trento, né altrove. Si va a San Felice, tra Illasi e Cazzano”. E così è stato».
Chi le diede il terreno per costruire lì il Centro San Romanello?
«Quel giorno c’era con me un prete illasiano, don Carmelo Piccoli, cappellano militare con l’hobby della magia e della prestidigitazione, ha anche scritto molti libri. In mezzo al campo don Carmelo scorse il generale Berionni, ufficiale del controspionaggio, un veronese che abitava in città ma aveva investito in quella terra i suoi risparmi. E gli gridò: “Generale, è disposto a vendere?”. L’altro: “Perché no?”. Chiedeva 12 milioni, io mi battevo per 8. Ma chi era con me obiettò: “No, diamogliene 12, perché è giusto così. I soldi ce li metto io”».
E ora sul monte Tabor vorrebbe innalzare un ospedale intitolato al Crocifisso.
«Sì. Sarebbe bello che la nostra dottrina sulla medicina e sulla sofferenza trovasse lì una sua espressione plastica».
L’ostacolo più grosso finora l’ha trovato nel Comune di Illasi. Anzi, nel sindaco Alberto Trabucchi, che lei però - dicono i maligni - è riuscito a far mandare a casa dopo 42 anni di regno ininterrotto. Così ora i suoi fedelissimi le fanno la guerra con i manifesti murali, in cui la accusano di aprire i cantieri lasciandoli incompiuti.
«Io non ho mandato a casa nessuno. Quanto all’attuale sindaco di Illasi, non l’ho mai visto né ci ho mai parlato. So soltanto che si chiama Castagna».
Ma perché Trabucchi ce l’ha tanto con don Verzé?
«Ah, questo bisognerebbe chiederlo a Trabucchi. Credo che sia un problema di carattere».
Lei cercò il suo assenso per l’ospedale del Crocifisso?
«Certo. La risposta fu ambigua: “Prima di dire sì o no, devo vedere il progetto”. Ma i progetti si fanno quando si ha la certezza di costruire, non prima. Costano, i progetti».
Non ci sarà un’incompatibilità di pelle fra due teste dure nate nello stesso paese?
«Con i fratelli di Trabucchi i rapporti sono sempre stati ottimi. Pensi che Emilio, lo scienziato, fu vicepresidente del San Raffaele. Giuseppe, l’ex ministro, venne a farsi curare qui. Cherubino, lo psichiatra, mi mandava i suoi pazienti».
Ma i miliardi per l’ospedale di Illasi li ha?
«Dipende dal mio Presidente. Se da Lassù condivide... Io comincio, poi la provvidenza mi segue».
Ammetterà che non è facile spiegarlo ai laici.
«Al contrario. Vuole che le faccia i conti secondo la logica umana? Io ritengo che la salute e la vita siano i beni più preziosi per l’uomo. Lei condivide?».
Assolutamente.
«Oh, bene. Per la salute l’uomo è disposto a spendere tutto. Tutto. Non solo, ma è disposto anche a lavorare. L’importante è avere una credibilità, dimostrare che si è capaci di fare le cose bene. A questo punto le banche ti vengono dietro».
E quali banche seguono don Verzé?
«Tante. Cariplo, Mediocredito lombardo, Banco di San Paolo, Banca nazionale del lavoro.

Da questi istituti di credito non ho mai avuto limiti di credito. Anzi, vengono loro a offrirmi i soldi».
Insomma, credono in lei.
«No. Questo è l’errore. Credono all’idea. Che non è mia, gliel’ho detto. È del Presidente».
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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