Il paradiso segreto dell'arte che lo Stato lascia nell'oblio

Un mecenate ha restaurato Villa Ottolenghi-Wedekind, con tesori di Wildt, Depero, Piacentini. Tutto è pronto per la riapertura. Tranne le istituzioni

Il paradiso segreto dell'arte che lo Stato lascia nell'oblio

Acqui Terme, è già famosa e frequentata per le sue acque termali e per il Premio Acqui Storia, il più prestigioso e antico del genere. Per diventare un centro turistico-culturale più importante le manca, manca all'intero Monferrato, un luogo dove celebrare i fasti dell'arte, della bellezza, dell'invenzione creativa, della cultura che si fa ricchezza. E dire che un luogo così ce l'avrebbe già.

Un secolo fa il conte Arturo Ottolenghi, nato ad Acqui nel 1887 da una ricca famiglia ebrea, sposò una tedesca ancora più ricca, Herta von Wedekind zu Host, degli omonimi banchieri che possedevano a Roma, fra l'altro, il magnifico Palazzo Wedekind, accanto a Palazzo Chigi, che oggi ospita la sede del Tempo . Amavano entrambi l'arte, ed Herta era scultrice. Nel 1920 decisero di realizzare il loro sogno neorinascimentale radunando artisti e capolavori in una sorta di Paradiso terrestre. Comprarono una tenuta di 80 ettari, con al centro un colle che domina Acqui. Lì avrebbero costruito la loro casa, il loro mausoleo e un ampio edificio destinato all'ospitalità e alla creazione.

L'intera vicenda è raccontata in un libro ben illustrato, appena uscito: Villa Ottolenghi-Wedekind , a cura di Federico Fontana, Luca Giacomini, Renato Lodari (Allemandi, pagg. 168, euro 60). Furono mobilitati i migliori architetti, pittori, scultori, arredatori, artigiani, paesaggisti e giardinieri dell'epoca, da Marcello Piacentini a Gio Ponti, da Adolfo Wildt a Libero Andreotti, da Arturo Martini a Venanzo Crocetti, da Fortunato Depero a Pietro Porcinai, per citare solo i più noti. Gli architetti realizzarono edifici e arredi insoliti, con vista su vigneti a perdita d'occhio, mentre pittori e scultori lasciavano ai proprietari le opere prodotte, in cambio dell'ospitalità e di un assegno mensile. In breve, la villa e il parco diventarono una raccolta di capolavori.

Gli artisti, più indocili di quelli del Cinquecento, crearono anche parecchi problemi. Erano anarchicheggianti, come Fortunato Depero, o preferivano la commissione pubblica, come Marcello Piacentini. Ma non fu questo a infrangere il sogno degli Ottolenghi. Furono i drammatici eventi dell'epoca - la Seconda guerra mondiale e la persecuzione razziale - insieme a eventi più banali: il trasferimento negli Stati Uniti del figlio Astolfo, poi il suo costoso divorzio dalla moglie Nina. Dopo poco più di sessant'anni dall'inizio dell'impresa, a metà degli anni Ottanta, il bisogno spinse gli eredi Ottolenghi a mettere all'asta 729 opere di oltre trenta artisti. Gli acquirenti non mancarono, e quasi tutto andò disperso senza che nessuna istituzione pubblica si facesse avanti per salvare sculture e dipinti. Non parliamo di preistoria, esistevano già le Regioni, il ministero dei Beni culturali e tutti gli enti che dovrebbero occuparsi di conservazione e valorizzazione dell'arte, del turismo, del territorio.

Il Paradiso terrestre venne abbandonato all'incuria per trent'anni. Finché arrivò, parlando di neorinascimento, quello che potremmo chiamare «neomercante». I maggiori creatori di bellezza, in Italia e nel mondo, non sono più soltanto gli artisti, sono anche gli industriali, i finanzieri, ovvero gli uomini che, quasi un millennio fa, venivano chiamati «mercanti». Furono i mercanti la prima molla del genio italiano, ben prima dell'Umanesimo e del Rinascimento. Quando si ritirarono, sull'onda del furore popolare e dell'ira chiesastica per la loro ricchezza, cominciarono a costruire sontuosi palazzi dove creare una corte di artisti e poeti, godersi la vita, le proprie fortune e il potere. Con il Rinascimento, nato dal loro mecenatismo, l'Italia si faceva sempre più bella e più dotta, ma sempre meno produttiva. Esportava letteratura e arte, ma non creava una moderna industria manifatturiera, non realizzava grandi vascelli per il commercio atlantico né migliorie per l'agricoltura né, tanto meno, uno Stato. Oggi i maggiori creatori di bellezza sono ancora i «mercanti», nella moderna accezione di industriali e finanzieri. Lo provano i capolavori della tecnologia - dall'iPad alle automobili - di cui è parte volutamente essenziale l'aspetto estetico, gli straordinari edifici che vengono costruiti in tutto il mondo grazie all'intraprendenza economica e culturale degli imprenditori, prima ancora che alla bravura degli architetti.

È proprio questa la fortuna capitata, all'inizio del nostro secolo, al sogno di Arturo e di Herta. Nel 2006 un industriale, Vittorio Invernizzi (niente a che vedere con i formaggi), scoprì la villa, e la comprò per riportarla all'antico splendore. Adesso i lavori sono finiti, e Villa Ottolenghi, il Mausoleo di Herta e il parco - che rischiavano di diventare una proprietà privata inaccessibile al pubblico - sono restituiti al territorio: pronti ad accogliere nuove opere, a valorizzare e promuovere cultura e territorio secondo lo stesso spirito dei conti Ottolenghi, ma in chiave più attuale e fattiva. Potrebbero essere possibili visite guidate istruttive soprattutto per le scolaresche, mostre, convegni, festival e feste, studi e attività commerciali di supporto.

Se è vero che «la cultura è il nostro petrolio», spesso un privato non può farla rendere da solo. Il mercante neorinascimentale di Villa Ottolenghi ha provato a bussare a tutte le porte dell'amministrazione pubblica, per trovare il sostegno indispensabile alla partenza di una simile iniziativa. Niente.

Con la scusa sempre buona della crisi, latitano anche le Fondazioni bancarie, moderni mecenati che consentono di vivere, e spesso di splendere, a simili istituzioni culturali. E il paradiso terrestre di un gruppo di sognatori potrebbe diventare soltanto il paradiso terreno di ricchi signori vogliosi di terme a cinque stelle.

Twitter: @GBGuerri

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