Paradossi Ora Gianfranco attacchi San Marino

di Gilberto Oneto

Nel pesante basto di colpe che getta sulle spalle del Cavaliere, Fini ci infila anche quella di non voler degnamente celebrare il 150° dell’unità d’Italia.
Proprio come per tutte le altre accuse, neppure questa viene però circostanziata e le nostre notti resteranno tormentate dal dubbio: cosa ha omesso il poco patriottico Berlusconi e cosa si dovrebbe fare per l’italianissimo Fini? Ci riterrà mai degni di conoscere il suo pensiero in proposito? Si paleserà un giorno alle pendici del Sinai per illuminarci sulle modalità dei festeggiamenti adeguati a cotanta necessità?
Come per tutto il resto, manterrà invece uno sdegnato e pensoso silenzio.
Proviamo allora noi a ipotizzare come si potrebbe compiacerlo su questo argomento.
In passato l’Italia ha affrontato altre due occasioni simili: il cinquantesimo nel 1911 e il centenario nel 1961. Il primo è stato celebrato alla grande con una guerra coloniale e l’erezione del Vittoriale, il secondo in maniera più sommessa puntando sull’immagine della ricostruzione, del «miracolo economico» e della civiltà industriale. Oggi, che siamo in piena depressione e declino, suonerebbe quanto meno beffardo affidarsi a elogi delle nostre esangui glorie tecnologiche o di una crescita che non c’è più. Restano le opzioni edilizie e quelle militari.
Il grande Nervi a Torino non aveva lasciato un segno commendevolissimo e oggi si fatica a trovare al suo ardito capannone e alla vicina Palavela un impiego decente. Ma fare di peggio dell’Altare della Patria, luccicoso di marmi estratti nel collegio elettorale dell’allora primo ministro Zanardelli, che Maccari aveva definito con irriverenza solo apparente «il più grande vespasiano d’Italia», è impresa ardua anche per certi architetti di regime.
Rimane solo la scelta bellicista, che nel 1911 aveva portato alla conquista della Quarta Sponda e le cui conseguenze stiamo ancora - letteralmente - pagando a un secolo di distanza. Però non è più tempo di guerre coloniali che contrasterebbero anche con la novella coscienza terzomondista del Fini e non ci sono vicini con contenziosi aperti. Certo, almeno nella sua visione molto indulgente dell’italico patriottismo, terre «irredente» da liberare se ne potrebbero anche trovare: tutti ricordano l’acrobatico tentativo finiano di scavalcare la rete di confine di Gorizia ma i tempi sono cambiati e una «redenzione» dell’Istria e della Dalmazia suonerebbero un po’ rétro soprattutto nei salotti che frequenta. Attaccar briga per Nizza e Corsica non verrebbe preso sul serio; una guerra di liberazione del Canton Ticino si trasformerebbe in una catastrofe militare e in una sollevazione di gran parte del Ticino davvero irredento, e cioè la Padania. Malta fa poca audience, il Vaticano non si può toccare: non resta che San Marino.
Fin dai banchi delle elementari ci siamo sempre chiesti perché si fossero fatte guerre sanguinosissime per spostare i confini di qualche chilometro e nessuno abbia invece mai pensato di «liberare» San Marino e siamo certissimi che la presenza di una enclave foresta, di un foruncolo ultroneo nel corpo della sua Madre Patria abbia sempre fatto soffrire la coscienza patriottica del Fini. Potrebbe indossare un berretto verde e marciare sul Monte Titano, anche con rischi di rovesci militari abbastanza contenuti. Si metterebbe così fine a una iniquità geo-politica e si scoverebbe pure qualche evasore. È quasi sicuro che nella sua requisitoria contro lo scarso patriottismo di Berlusconi, Fini stesse proprio pensando a San Marino.

Come Badoglio, di cui fa di tutto per ripercorrere le orme, che era stato nominato marchese del Sabotino e duca di Addis Abeba, Fini di sicuro aspira con la conquista a un titolo nobiliare: forse non quello eccessivo di principe del Titano ma almeno quello di barone di Cà Chiavello, una delle 43 Curazie della cessata iniqua Repubblica, non glielo toglierà nessuno.

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