IL PARADOSSO

Qualcuno definisce le elezioni odierne in Germania come «il voto della rabbia». Sarebbe più esatto, e meno drammatico, scegliere la parola disincanto. Soprattutto per il ristagno dell’economia che i sette anni di governo rosso-verde hanno evitato di affrontare. Una disoccupazione del 12 per cento, nettamente superiore a quella italiana. La novità, nel Paese abituato ad attrarre milioni di lavoratori stranieri, di decine di migliaia di tedeschi costretti a cercare un job all’estero: nelle imprese austriache (sono già 50mila), in Svizzera, perfino in Islanda. O a saltare su impieghi stagionali come Disneyland in Francia o la raccolta delle fragole in Svezia. La delusione ormai endemica per i mancati progressi dell’Est riunificato che non è riuscito a prendere quota in quindici anni, mentre, sia pure a corrente alternata, lo fanno la Polonia e la Slovacchia, la Repubblica Ceca e i Paesi Baltici. La ex Ddr, soprattutto per le le migrazioni interne, continua a perdere abitanti: oggi sono 13 milioni in tutto su 80 e rischiano fra qualche decennio di essere scavalcati dal totale degli extracomunitari.
Un lungo disincanto, che si tramuta ad ogni elezione in massicci voti di sfiducia ai partiti della coalizione di governo, particolarmente la Spd di Gerhard Schröder, e in vittorie della Cdu, conseguenze di necessità più che di entusiasmo, che è favorita ancora una volta nelle urne di oggi più per i suoi pur cauti programmi che per la personalità dei suoi leader. Nessuno ha saputo indossare i panni smessi da Helmut Kohl: non Edmund Stoiber tre anni fa e neppure Angela Merkel oggi. Rimproverano all’Unione democristiana una certa vaghezza di programmi, pronti poi a criticarla quando presenta progetti precisi perché li trovano troppo coraggiosi. Il paradosso si completa con i risultati ricorrenti di un sondaggio surreale: la maggioranza degli elettori vorrebbe al potere la Cdu con Schröder per cancelliere. Forse è la nostalgia per una minore polarizzazione, che si rispecchia nelle indagini più realistiche delle intenzioni di voto: i democristiani e i loro alleati liberali nel centrodestra attorno al 50 per cento o qualcosina di più, i partiti di sinistra e di estrema sinistra attorno al 50 per cento, e forse, qualcosina di meno. L’incubo di uno «stallo» nel momento in cui c’è più bisogno di uno strappo deciso. L’ipotesi del ricorso a una formula paralizzante di «unità nazionale» che sarebbe la peggiore delle soluzioni. La campagna elettorale che si è chiusa ieri è vissuta dunque in gran parte di velleità: quella di una riscossa degli ex comunisti assieme agli utopisti della sinistra Spd, che un giorno chiedono la riabilitazione della dittatura crollata sotto il Muro e il giorno dopo la liberalizzazione della droga. Le cautele dei liberali, privi di un leader. Gli accenni manovrieri dei Verdi, che potrebbero passare dall’estrema sinistra a una qualche forma di collaborazione con il centrodestra. La guerra di posizione dei democristiani che da settimane non vedevano l’ora che si arrivasse alla data del voto per salvare abbastanza del vantaggio acquisito.

Infine le «distrazioni» di Schröder, che è parso davvero illudersi di poter ribaltare l’esito di un referendum sull’economia malata del suo settennato rilanciando la polemica antiamericana, alzando veti a una guerra contro l’Iran che non è all’orizzonte o proponendo un asse Parigi-Berlino-Mosca che ricorda più il Congresso di Vienna di 190 anni fa che le realtà urgenti del Ventunesimo secolo.

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