Politica

Parigi, borse e scarpe contano di più degli abiti in passerella

Daniela Fedi

da Parigi

Qualcuno si sta sbagliando. Stiamo seguendo le sfilate del prêt-à-porter femminile per la primavera/estate 2006 oppure un'interminabile fiera degli accessori cominciata a New York venti giorni fa e ora in corso con tutta la grandeur del caso nella Ville Lumiere? Il sospetto è legittimo e non mette certo di buon umore gli addetti ai lavori della moda a cui non sfugge l'amara verità di un sistema che, pensando solo al dettaglio, pretenderebbe d'offrire una visione completa della società. In quest'ottica la prima collezione disegnata per Celine dalla deliziosa stilista croata Ivana Omazic, era perfetta: bellissime scarpe, borse più che desiderabili e una fantastica collana in grosse perle di coccodrillo forgiate a mano con grande maestria da qualche artigiano. Sul fronte vestiti, però, in passerella ieri a Parigi non s'è visto niente di nuovo: freschi chemisier, semplici ensemble di gonna-camicetta-pullover e qualche trench senza maniche. Il massimo dell'inutilità, dunque, se l'idea fosse risolvere l'eterno dilemma delle donne che davanti ad armadi stipati di ogni ben di Dio al cambio di stagione dicono: «Non ho niente da mettermi». Ma il vero obbiettivo della maison controllata da tempo dal Gruppo LVMH (Louis Vuitton Moet Hennessy) è piuttosto vendere la nuova borsa da medico condotto chiamata "Dorine", quella tagliata come un grande borsellino che di nome fa «Clandestine» e tutte le variazioni sul tema del classico mocassino «Byblos» che conserva le nappine sulla mascherina ma diventa ballerina o scarpa con il tacco. Del resto la giovane designer che proviene da un interessante apprendistato con Romeo Gigli prima e nel Gruppo Prada poi, dice di aver usato la storia del marchio come punto di partenza e fino a prova contraria Celine è nato nel 1945 a opera di Madame Vipiana, una signora così portata per gli affari da trasformare un negozio parigino di scarpe per bambini in una griffe del lusso globale. Diego Della Valle parla piuttosto di «costruzione del sogno» riferendosi a quel prezioso gioiellino del Gruppo Tod's che è Roger Vivier, firma di culto nel settore calzaturiero (qualcuno gli attribuisce l'invenzione della zeppa, altri quella del tacco a spillo) applicata oggi a un universo di oggetti speciali che vanno dalle borse ai gioielli passando per gli occhiali da sole. Visto che dietro c'è uno staff di prim’ordine che comprende l'ex Marianna di Francia Ines de la Fressange e l'ottimo designer Bruno Frisoni, ci si chiede perché non lanciarsi subito nell'abbigliamento. In mezzo a tutto l'idea di una collezione d'accessori dedicata all'Africa di Karen Blixen e all'eleganza rarefatta di Palm Beach negli anni Cinquanta è senza dubbio più evocativa di tanti abiti che non dicono nulla. «Per ora la forza di Roger Vivier è produrre sogni che vogliono tutti e pochi si possono concedere» risponde perentorio Della Valle. In effetti le scarpe a tiratura limitata fatte con un tessuto vintage dell'artista Raoul Dufy come il minibauletto battezzato «Berlingo», sono l'emblema della desiderabilità. Certo Chanel diceva che l'accessorio è la punteggiatura dell'abito, ma se pochi si ricordano di scrivere un testo convincente, le virgole diventano inutili.

Anche per questo la sfilata di Dries Van Noten ci è sembrata una meraviglia: un inno poetico e senza nessuna caduta sul fronte del folk alla sublime estetica orientale che prevede donne gentili, vestite di tessuti preziosi, di forme tanto allungate quanto fluide e di silenzio.

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