Parola d’ordine del Comune: salvare la cassoeula dall’oblio

Parola d’ordine del Comune: salvare la cassoeula dall’oblio

Quando la chiesa dettava i tempi della tavola e il contadino era una figura rispettata da tutti, guai a preparare e servire la cassoeula prima dell’11 di novembre, giorno di San Martino e giorno di festa perché erano finiti i lavori nei campi. Oggi si fa riferimento a San Martino per simpatia e perché, in ogni caso, è difficile che a qualcuno venga in mente di mangiare un piatto ricco come questo, fatto di maiale e di verze, quando fa caldo.
Nel suo La Cucina milanese, introvabile fatica edita da Franco Muzzio nel 1991, Marco Guarnaschelli Gotti, che la chiama cazzoeula, ricorda come in passato «il maiale era usatissimo, anche perché più economico di altre carni, e, come per altri animali, noi Milanesi abbiamo una ricetta totemica che lo riguarda, una ricetta viva ancor oggi anche se un po’ alleggerita». Quell’oggi risale a sedici anni fa, ma la realtà non è in fondo cambiata a patto di non voler credere - e far credere - che si mangi cassoeula con la stessa facilità con cui i pendolari prendono il metro. Basti ricordare come il Comune, attraverso l’assessorato alle attività produttive, titolare Tiziana Maiolo, il 7 dicembre punterà alla DeCo, la Denominazione Comunale di identità qualitativa, della cassoeula e della michetta, prime di una lunga teoria. Con questo atto, si stabilirà come prodotti o ricette golose finite in ombra debbano essere fatte per essere considerate autenticamente meneghine, nella speranza di ridare sostanza locale a tradizioni svuotate di reale sostanza legata al territorio dove sono nate.
Piatto figlio della povertà, che puzza per chi non lo capisce e apprezza, è ricco degli scarti del maiale come codini, orecchie, piedini e cotenne, di salamini da verza, i verzini, e di verze che dovrebbero avere preso il gelo per essere degne di morire nella casseruola fumante.
Due i grandi quesiti che si rinnovano eterni, uno è legato alla cottura delle verze e l’altro al momento ideale per mangiarla. C’è chi gradisce il disfacimento della verdura e chi lo rifiuta, preferendo distinguerne le foglie, così come c’è chi gusta la cassoeula il giorno stesso e chi la fa riposare per godersela l’indomani, riscaldata.
Come per tante preparazioni zuppose, anche questa in origine vedeva il cuoco versare di tutto in pentola, tanto quello che contava era riempire gli stomaci vuoti dei commensali. Poi, più la sfera del benessere ha preso ad allargarsi, più si è iniziato a prestare attenzione ai vari passaggi in cottura e allora ecco tanti scoprire che, oltre a una sgrassatura più meticolosa possibile, una bollitura più breve e attenta della verza migliorava il risultato finale.
L’altro dilemma non ha invece una risposta precisa, dipende dal gusto di ognuno anche se è sicuro che molte minestre, molti spezzatini di carne e lo stesso pane naturale migliorano se riposano per 24 ore.

Una verità: al di là della sua vigorosa bontà, la cassoeula è un piatto che genera allegria e amicizia, da mangiare almeno in quattro anche se Luca Brasi, alla Lucanda di Osio Sotto (Bergamo), sa sublimarla con pochi tratti, rendendola un secondo da menù degustazione e non un maestoso piatto unico.

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