La parola fine sul Sessantotto

L’approccio più sbagliato per un dibattito sul Sessantotto sarebbe considerarne soltanto gli effetti, senza tenere conto delle cause che lo provocarono. Si trattò infatti della rivolta – inevitabile quanto necessaria – di una generazione che non voleva sottostare a schemi vecchi, a regole logore. Parlo, naturalmente, del Sessantotto che nacque e si sviluppò come fenomeno libertario, non di quello che si perse nella strada verso il comunismo, il maoismo, il terrorismo.
Il mondo si stava avviando, senza saperlo, verso quella che oggi chiamiamo globalizzazione, ma le società nazionali erano ancora bloccate nelle loro tradizioni chiuse; si celebrava la vittoria della libertà contro il nazismo, ma erano ancora guardate con sospetto o condannate a priori le libertà individuali, come la sessualità, per non dire l’omosessualità; scienza e progresso facevano passi rapidissimi, mentre la scuola era ferma a metodi e insegnamenti ottocenteschi; tutto andava più veloce, tutto evolveva più rapidamente di prima, tranne i rapporti tra figli e padri, tra maschi e femmine, tra politica e cittadino. Non dico che fu soltanto il Sessantotto a determinare il cambiamento, ma credo che il Sessantotto ci fu perché un cambiamento era indispensabile.
Poi, come tutte le grandi trasformazioni epocali, il Sessantotto è diventato sessantottismo e ha prodotto reduci statici come le regole che erano state abbattute. Sovente è diventato portatore di un pensiero attorcigliato su se stesso, quindi conservatore, e a sua volta non sempre in grado di fare fronte al nuovo che avanza. La sua spinta propulsiva è finita da tempo, eppure, avendo trasformato un’epoca e determinato quella successiva, il pensiero sessantottino tende a perpetuarsi a causa di quella deriva per cui ogni rivoluzione tende a diventare conservazione, a non riconoscere alcuni effetti negativi delle proprie tesi, a non essere capace di ripensarsi.
La scuola è l’esempio più evidente e clamoroso. Considero ancora sacrosanto essermi battuto in tutti i modi contro “quella” scuola che aveva tormentato il mio ingresso nella società: nozionistica, pedagogicamente arcaica, iperselettiva a favore dei più abbienti, assolutamente incapace di tenere il passo con la modernità. Oggi la scuola è per molti versi migliore grazie proprio al Sessantotto, ma il perpetuarsi ottuso di principi sessantottini ha provocato nuovi guasti drammatici e a rovescio: abbiamo una scuola che insegna sempre meno, ma con la violenza dell’obbligatorietà anche per chi è negato agli studi, e che in compenso non sa aiutare (anzi rallenta) gli studenti più dotati. Ergo, è necessario pensare a una scuola più formativa e più selettiva uscendo dal solco, ormai infruttifero, tracciato quarant’anni fa.
Altro tema che è doveroso – oltre che lecito – ridiscutere è quello dell’aborto. Il quale fu legalizzato in parte per combattere la tragedia degli aborti clandestini, in parte come omaggio supremo alla libertà individuale, quella della donna di disporre come volesse del proprio corpo. L’aborto legalizzato è ancora il sistema migliore per combattere quello clandestino, ma non si può più fingere di ignorare che abbiamo trasformato un problema etico (interrompere una gravidanza) in un problema sociale (la libertà della donna). Non lo si può più ignorare oggi, mentre i progressi della scienza ci hanno posto di fronte al problema dei diritti degli embrioni. Pochi sembrano rendersi conto dell’assurdità di discutere il diritto alla vita degli embrioni, in un Paese che ogni anno finanzia con il denaro pubblico l’eliminazione di 130.000 feti-bambini. In compenso, e assurdamente, la nostra società dibatte ancora se concedere i diritti più elementari delle coppie sposate a quelle conviventi. Ovvero è ancora vastissima l’area della vita privata ancora sotto il controllo di uno Stato invadente e discriminatorio, e quell’area rischia di allargarsi sempre di più, come dimostrano le sempre più ossessive campagne di salute pubblica contro il fumo, il mangiare, il bere. Altro che fantasia al potere.
Dopo questi esempi, si potrebbe proseguire all’infinito sui meriti e sui guasti del Sessantotto, su quanto fatto e su quanto ci sarebbe ancora da fare per liberare i cittadini dalla tutela di uno Stato censore e moraleggiante. Ma il pensiero sessantottino è in grado di affrontare temi e problemi che quarant’anni fa non erano neppure ipotizzabili. La tecnologia, come Internet ad esempio, ci ha messi di fronte a una vera mutazione antropologica, in cui il problema non è più la libertà fine a se stessa, ma darle un senso. Allo stesso modo dobbiamo dare un senso – non più soltanto individuale, ma anche collettivo – alle idee: ce lo impone la fine delle ideologie, che erano idee preconfezionate a uso di tutti; ce lo impone la decadenza degli Stati nazionali, indeboliti dalla globalizzazione e, in Europa, dall’Ue; ce lo impone la crisi del modo tradizionale di vivere la religione come insieme di precetti, sostituiti da una religiosità self-service.
A ben vedere, in definitiva, il problema che si pone oggi alla nostra società non è nuovo ma antichissimo: conciliare il massimo sviluppo delle libertà individuali con l’interesse collettivo, senza che le prime ledano l’altro, e viceversa.

Oggi mantenere lo spirito del Sessantotto significa capire che a ogni azione corrisponde una reazione, in natura come nelle società; e che quella reazione rischia di diventare un Reazione, se non si sarà capaci di far evolvere schemi buoni decenni fa e in gran parte superati. Del resto, come dicevamo? Ce n’est qu’un début...
Giordano Bruno Guerri
www.giordanobrunoguerri.it

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