Il Partito comunista e il gramscismo nazional-popolare

Il ministro dei Beni culturali, Sandro Bondi, è ritornato ieri sulla Stampa a discutere su usi e abusi del pensiero di Gramsci, in seguito al cosiddetto «gramscismo di centrodestra» evocato da Lucia Annunziata, evocazione per un verso fantasiosa, per l’altro frutto di un’omissione fondamentale.
Chiediamoci perché la filosofia di Gramsci ha potuto sia elaborare il principio dell’egemonia culturale, sia esercitarlo efficacemente nella società italiana. La risposta, che vedo dimenticata, è che Gramsci innesta la sua riflessione nel metodo storicistico crociano. Togliatti non si stancò mai di ricordare che la tradizione del Pci affonda le proprie radici in De Sanctis, Croce e Gramsci. Si preoccupò di ripeterlo ancora in piena guerra con un discorso ai quadri dell’organizzazione comunista napoletana l’11 aprile ’44, per spiegare la «svolta di Salerno» e confutare l’accusa rivolta ai comunisti italiani di essere antinazionalisti.
Non è un caso che gli allievi migliori di Croce si avvicinarono al Pci. Il metodo crociano storicista permetteva a Gramsci e ai gramsciani un’interpretazione sempre molto concreta della realtà e il radicamento dell’azione nella storia, rifiutando ideologismi e schemi astratti. L’egemonia culturale del Pci poteva avere successo solo innestandola nel crocianesimo. Questa era l’intuizione di Gramsci e questa era l’idea perseguita da Togliatti che legava la cultura dei comunisti alla cultura nazionalpopolare: per esempio rinvenuta nella letteratura resistenziale (Vittorini, Bassani, Cassola, Pasolini). E non si dovrebbe dimenticare che il nazionalismo e il popolarismo furono il terreno dell’universo culturale di D’Annunzio, del linguaggio del giovane Mussolini e poi del fascismo e che, ancor prima, erano stati la base della tradizione risorgimentale, e quindi ripresi da Gramsci come principi della rinascita dell’Italia.
A partire dagli anni ’60 inizia il declino della cultura nazionalpopolare e della figura dell’intellettuale nazionalpopolare. Nel ’65 Alberto Asor Rosa pubblica Scrittori e popolo e, negli stessi anni, di Mario Tronti è Operai e capitale. L’attacco a Gramsci è violento, radicale è la critica al crocianesimo, massacrata è la letteratura che a essi s’ispira. Così scrive Asor Rosa del Sentiero dei nidi di ragno di Calvino: «Una summula del resistenzialismo di sinistra, e al contempo un repertorio di luoghi comuni, provenienti da Vittorini, da Pavese, dalla cultura americana, dalla pubblicistica comunista».
Queste critiche, il Sessantotto, le tesi contro la cultura popolare di massa della scuola tedesca di Francoforte, le esigenze di modernizzare i riferimenti ideali del comunismo, porteranno Giorgio Napolitano, responsabile nella metà degli anni ’70 dell’ufficio culturale del Pci, a liquidare la tradizione gramsciana per dialogare con chi appariva più pronto alle nuove sfide della modernità. Di fatto, aveva inizio il tracollo culturale (poi sarà politico) del comunismo. Gli antigramsciani non sapevano distinguere gli elementi moderni da quelli regressivi, e il Pci per non fare più i conti con la propria storia incominciava a prendere, come al supermarket, un pezzo di cultura qua e un pezzo là, finché nel carrello della spesa finirono Kennedy, i Beatles e Jovanotti.


L’egemonia la sinistra è comunque riuscita a conservarla, come dice Bondi, grazie alla sua consolidata «burocrazia culturale», me anche grazie all’assoluto disinteresse della politica di centrodestra per la sua storia culturale e i suoi intellettuali.

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