da Roma
Non è precisamente un buon colpo dimmagine quello messo a segno dal Partito democratico al suo esordio. La gara per le primarie inizia in un clima da pochade, tra regolamenti confusi, firme ballerine, candidati bocciati, candidati promossi e candidati che rinunciano, con abbondante contorno di polemiche, risse interne e veleni.
Al veleno ci ha pensato Tonino Di Pietro. Lui non farà ricorso presso lormai mitico «Ufficio tecnico-amministrativo» del Partito democratico, come invece hanno annunciato Pannella e Bonino, denunciando che «le motivazioni addotte fino ad oggi mi sembra la dicano lunga sul tipo di chiusura, di arroccamento, che Ds e Margherita hanno deciso di dare a queste primarie». La sua candidatura a leader del Pd Di Pietro la considera archiviata, «non faccio rientrare dalla finestra con le carte bollate quel che è uscito dalla porta».
Ma a sera scatena la sua vendetta contro il Quartier Generale che lo ha tenuto fuori dalla porta: «La mia esclusione è politica» e ha «ragioni inconfessabili». Quali? «Danno fastidio le mie posizioni sullindulto, sulle intercettazioni, sullautorizzazione a procedere per i parlamentari, sullabrogazione delle leggi vergogna». Evidentemente «il nostro modo di fare politica dà fastidio al manovratore, o ai manovratori». Chiaro il riferimento allaffaire Unipol, sul quale da settimane il ministro bombarda i Ds, paventando loschi «inciuci» con la Cdl, autrice delle «leggi vergogna». E dallattacco lex pm salva espressamente Romano Prodi: lui, racconta, non solo era a conoscenza della sua intenzione di candidarsi, ma la ha incoraggiata dicendo che gli avrebbe fatto «molto piacere», e oggi gli ha «espresso il suo rammarico» per lesclusione. Dunque sono stati i Ds (intercettati) e i loro sodali della Margherita ad opporsi alla scesa in campo del giustiziere dalla spada fiammeggiante. Non tutti, nella Margherita: raccontano che laltra notte, nella convulsa riunione dellUfficio Tecnico-Amministrativo, il rutelliano Rino Piscitello abbia espresso seri dubbi sullesclusione di Di Pietro (non su quella di Pannella). Tanto che ieri sera il capo dellUfficio Tecnico-Amministrativo che ha in mano i destini del Pd, il fassiniano Nico Stumpo, ha fatto diffondere un apposito comunicato per precisare che «dopo un ampio e interessante dibattito» il voto finale ha registrato «la totalità della convergenza di tutti e sette i componenti su tutti i gradi di giudizio presenti nella risoluzione». Un modo un po involuto, come si conviene ad un ufficio tecnico-amministrativo che si rispetti, di precisare che alla fine tutti hanno votato per cacciare sia Di Pietro sia Pannella, i due ingombranti outsider che volevano fare il nido del cuculo in casa Ds-Dl. Ieri sera si è fatto da parte anche un terzo candidato, Furio Colombo. Le sue firme erano state accettate «con riserva», perché raccolte via web e fax: «Burocrati», accusa il senatore, «non conoscono lItalia delle autocertificazioni».
Mentre Rosy Bindi, candidata ammessa, spara il suo primo siluro contro Veltroni («Si è candidato a fare il presidente del Consiglio, ma noi un premier già lo abbiamo ed è Prodi»), scoppia la polemica interna sulle esclusioni: «Precipitose e non adeguatamente motivate», accusa il prodiano Monaco. «Lesclusione di Pannella e Bonino indebolisce il dibattito interno», denuncia il Dl Mantini. «Un Pd fatto solo di Ds e Dl mi pare che rischi di chiudersi in mal di pancia interni - lamenta unaltra prodiana, Franca Bimbi -, questi due soggetti non bastano, perché tutti e due mancano di un vero pluralismo». E lulivista Cinzia Dato nota: «Il terrore che ha seminato Pannella con la sua candidatura alla segreteria del Partito democratico ha rivelato quanto lontani siano ancora Ds e Margherita da un vero cantiere democratico». Un trionfo, insomma.
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