Roma - Alla fine, dopo tanti segnali di malumore criptati, attutiti, se non camuffati, è arrivato il primo dissenso dichiarato di un prodiano alla (finora) trionfale discesa in campo di Walter Veltroni nell’arena dell'Ulivo. È il no di Arturo Parisi, ministro della Difesa, ma anche padre nobile del Partito democratico, che si spinge ad annunciare la possibilità di una (auto) candidatura di protesta: «Se Veltroni dovesse restare l’unico candidato alle primarie mi candido anche io». Ovviamente per capire il senso di questa provocazione choc del piccolo-grande sardo, occorre ripercorrere gli eventi degli ultimi giorni e sviscerare le dinamiche che si stanno sviluppando intorno alla candidatura di Veltroni.
Da quando il primo cittadino di Roma ha iniziato il suo percorso (che domani lo porterà all’incoronazione di Torino) infatti è stata proprio l’ala più ulivista della Margherita a lanciare diversi messaggi di apprensione per «il meccanismo unanimistico» che si sta creando in vista delle primarie del 14 ottobre. Un giorno prima della candidatura di Veltroni erano almeno sei i potenziali corridori, molti dei quali, fra l’altro, iscritti al suo stesso partito. Un minuto dopo tutti i pretendenti hanno ritirato la propria candidatura o l’hanno messa in stand by, preoccupati dell’accoglienza a Veltroni. Il caso clamoroso, che illuminava tutti gli altri è quello del capogruppo al Senato Anna Finocchiaro, che persino lo stesso giorno del «grande annuncio», spiegava dalle colonne de La Stampa, che lei era già candidata, e che un eventuale presenza di Veltroni sarebbe stata «una fra le tante».
In 24 ore, dopo aver capito che la Quercia, rispondendo a un vecchio riflesso condizionato sosteneva «Walter», la Finocchiaro cambiava marcia e andava persino a trovarlo in Campidoglio: «Non mi candido più, dietro di lui c’è un consenso più forte». Pazzesco, ma vero.
Ecco perché Parisi motivava così il suo niet: «Non lo farei per un astratto principio democraticistico - afferma il ministro - ma per la piega unanimistica e plebiscitaria che, come era prevedibile, ha preso la candidatura di Veltroni a causa della investitura da parte dei vertici dei partiti».
E la critica di Parisi non si ferma qui: «Ci manca solo - aggiunge lo storico braccio destro di Prodi - che dietro Veltroni si nasconda ora una pluralità di liste delle correnti di partito distinguibili tra loro solo in nome delle provenienze passate o dei personalismi presenti e la frittata è fatta. Il Partito democratico, fondato sul superamento delle appartenenze passate e sulla partecipazione determinante dei cittadini, sarebbe di nuovo rinviato. Ma - conclude il ministro della Difesa - non deve finire così».
Fin qui ciò che è sulla scena. Ma certo, il gesto di Parisi intercetta anche qualche malumore più profondo, che nessuno fino a oggi è riuscito a scandagliare. Non è un mistero che Romano Prodi non abbia manifestato nessun autentico entusiasmo per la scelta. E che molti, nella sua coalizione, sognerebbero una «soluzione Blair», con il premier che si tira indietro per far posto al successore designato. In Gran Bretagna succede, e subito Gordon Brown vola nei sondaggi, in Italia no, e come dice Boselli «Questo indebolisce sia Romano che il governo». E Walter, intanto? È volato ieri in Romania, per risolvere con un dialogo bilaterale il problema dei Rom, oggi cittadini europei. Sembra una missione «da premier» più che «da sindaco»? Appunto.